Antonio Polito elogia su Il Corriere della Sera la stabilità politica “strutturale” della Germania alla vigilia del voto, a paragone con un’instabilità politica che in Italia appare ormai “metodologica”, ancor più che patologica. L’articolo è, as usual, argomentato e stimolante. Non da ultimo, è scritto da un giornalista che ha eletto la Britannia a patria intellettuale e su un quotidiano che – al pari di altri in Italia e nel resto del mondo – è stato ferocemente critico nei confronti della bundeskanzlerin: di volta in volta pasticciona ottusa su Grecia ed euro, un po’ figlia dell’ex Ddr, un po’ nipotina della Germania “del passato che non passa”, sicuramente troppo cristiano-sociale per i palati cosmopoliti, globalisti, mercatisti.



Nel settembre 2013, in ogni caso, Angela Merkel si è già meritata un ritratto in galleria a fianco dei predecessori nel dopoguerra tedesco (quasi tutti grandi statisti: da Adenauer a Brandt, da Schmidt a Kohl, allo stesso Schroeder). A Londra, invece, Cameron è stato battuto ai Comuni sulla special relationship con l’America di Obama, crollata sul prosieguo delle strategie “coloniali” nel Vicino Oriente. E la Casa Bianca stessa è in paurosa crisi di leadership su Siria e Fed. Cinque anni dopo il crac Lehman, tutti i tentativi auto-difensivi di Wall Street e della City di gestire la grande crisi come un “incidente tecnico” hanno alla fine travolto i leader politici chiamati ad affrontare la transizione. Ma questo è un altro discorso.



A Berlino (“Merkeland”, Europa) per i prossimi cinque anni governerà intanto ancora mutti Angela: forse in segreto tentata dal diventare furher democratica di una grosse koalition che, a differenza del 2005, aumenterebbe al massimo il suo potere e il suo prestigio. E le darebbe probabilmente l’autorevolezza per compiere nell’Ue ciò che Obama si era illuso di fare nel suo second term: contribuire a gettar le basi di un “nuovo ordine”, fra politica e mercati e nel nuovo mosaico geoeconomico planetario. Per questo fanno bene Polito e il Corriere ad additar “Merkeland” all’Italia, ma senza dimenticare almeno qualche dettaglio.



E il primo è certamente che nella “stabilità” tedesca nessun giornale ha mai pubblicato un’intercettazione giudiziaria del premier in carica: tanto meno riportando giudizi informali su altri premier in carica Ue (e non siamo certi che quelli privati del cancelliere tedesco sul Cavaliere italiano siano più forbiti di quelli reciproci, ampiamente pubblicati – anche – dal Corriere).

La “stabilità” tedesca esclude programmaticamente l’antipolitica programmatica che invece è il pane quotidiano dell’establishment rappresentato (anche) dal Corriere: nel 1922, nel 1992, e anche nel 2011-2013. La “stabilità” tedesca potrà dare qualche punto percentuale e qualche seggio al Bundestag a un partito anti-euro come l’Afd, ma mai (più) il 25% a tale Beppe Grillo che ostenta lo stesso stile di Adolf Hitler (o Benito Mussolini) novant’anni fa. La “stabilità” tedesca non si concede il discredito e il disprezzo sistematico: quello – “antropologico” – che trapela anche dall’articolo di Polito quando cita “Signorini e Briatore” come due sub-italiani immeritevoli di cittadinanza. 

La “stabilità” tedesca ha imparato – negli anni Venti del secolo scorso – che la moneta è una cosa serissima soprattutto quando la politica è più fragile. La “stabilità” tedesca del dopoguerra ha ricostruito mattone su mattone, parola su parola, marco su marco, voto su voto, governo su governo un Paese annientato ridando spazio a quelli che Polito chiama “retaggi culturali e ideali”: uno dei quali – quello cattolico-democratico – è tale e quale in Italia da quasi un secolo; mentre l’altro è approdato al socialismo democratico più tardi, ma non con meno contenuti di quello che oggi anima la Spd. La “stabilità” tedesca è “l’instabilità” italiana che Giorgio Napolitano ed Enrico Letta stanno provando a superare facendo leva sulla stessa “esperienza storica”, talora dura e drammatica, che ha costruito la stabilità tedesca.

 

P.S.: Alcune sere fa, nell’aula magna della Cattolica, in occasione della presentazione di “Vita di Don Giussani” di Alberto Savorana, Paolo Mieli ha chiesto “scusa”. Scusa per essere stato tra i molti che – negli anni 70 – non hanno compreso che l’emergere di Comunione e liberazione nella vita civile del Paese non andava combattuta – come invece accadde, con picchi di violenza materiale e culturale – ma democraticamente accolta, capita e valorizzata come contributo rinnovato di una storica forza popolare italiana come quella cattolica. Sono già trascorsi due anni da quando Napolitano, nel frattempo rieletto presidente della Repubblica, ha scelto il palco del Meeting di Rimini per riconoscere definitivamente il ruolo dei cattolici lungo l’intera costruzione dello Stato unitario: ma evidentemente la “stabilità”, la pacificazione civile “strutturale” che ancora piace a molte élites in Italia è sempre quella degli altri. Perfino quella di un Paese che ha saputo risorgere da ogni orrore nazista.