Per capire cosa è successo nelle ultime ore a Nairobi (Kenya), nel lussuoso centro commerciale Westgate, è fondamentale capire chi siano i terroristi che per oltre due giorni hanno tenuto in ostaggio diverse decine di persone, uccidendone altrettante, dopo aver dato la possibilità ai musulmani presenti di salvarsi.
In primo luogo bisogna chiarire che i membri del commando, affiliato al gruppo terroristico al-Shabaab non erano cittadini kenioti ma somali, si tratta dunque di un attacco terroristico realizzatosi in terra straniera. E qual è quindi il legame tra il Kenya e i fondamentalisti somali? Da tempo il governo di Nairobi è in prima fila per combattere il terrorismo nell’est Africa, ed è attivamente presente in Somalia con un contingente armato inviato per contrastare le azioni terroristiche degli Shabaab; basta questo ad interpretare i fatti di Nairobi come una rappresaglia contro questo impegno del governo keniota.
Quella che sembrerebbe una questione geopolitica africana, a una analisi dettagliata ci conduce in Occidente, e in particolar modo negli Stati Uniti e in Canada. Infatti la Cnn ha rivelato che diversi terroristi appartenenti ad al-Shabaab sono stati reclutati nella lontana terra americana, come a Minneapolis in Minnesota, per esempio. Tutto è nato nelle comunità somale locali, che negli ultimi anni hanno svolto una campagna di reclutamento tra i giovani naturalizzati americani, convincendone alcuni ad arruolarsi nei gruppi terroristici e ad andare a combattere il governo somalo.
Da un messaggio Twitter dell’account di al-Shabaab (ora sospeso) risulta che almeno tre dei membri del commando che ha assaltato il centro commerciale di Nairobi provengono dagli Stati Uniti e la presenza di cittadini americani nell’organizzazione terroristica sarebbe confermata, come sostiene l’analista della Cnn Peter Bergen, dal fatto che l’inglese utilizzato nei loro tweet “è il tipo di inglese che un americano utilizzerebbe”. Anche l’Fbi ha affermato che diversi giovani di Minneapolis sono stati reclutati da al-Shabaab, e almeno tre di questi sarebbero coinvolti in attentati suicidi in Somalia negli ultimi anni.
Gli Stati Uniti non sono nuovi a questo tipo di problema, e le unità di controterrorismo americano sono da tempo impegnate a scovare i luoghi nei quali il reclutamento interno riesce a conquistare più adepti, luoghi che generalmente coincidono con il ricrearsi di comunità locali all’interno delle città americane.
E non si può sfuggire al pensiero che vi sia un legame politico tra questi reclutamenti e la politica estera di Washington: infatti dal 2004 gli Stati Uniti sostengono il governo somalo contro gli attacchi dell’Unione delle Corti Islamiche, di cui al-Shabaab è il braccio armato; e non è da escludere che i cittadini somalo-americani siano stati arruolati mediante una logica islamista anti-occidentale teorizzata proprio nella patria ospitante.
Questo riaccende negli Stati Uniti il dibattito sul multiculturalismo e sull’eterogenesi dei fini che spesso la società liberale si trova ad affrontare, accogliendo stranieri e rifugiati politici che poi agiscono contro gli interessi statunitensi.
È quindi pronto a riaprirsi l’eterno dibattito tra chi sostiene che questo sia il prezzo da pagare da parte di ogni democrazia liberale e chi, pur accettando questo rischio, sostiene che una politica con alla base un vero multiculturalismo sia quella che tende all’integrazione e si spende per evitare lo sviluppo di sottocomunità che tendono ad isolarsi se non addirittura a costituirsi come antitetiche a quella americana.