Caro Direttore,
Mi sto ambientando, qui a Ngozi, e inizio a conoscere i vari padiglioni dell’ospedale. Da casa nostra, che sta a uno degli ingressi della struttura, attraverso tutto l’ospedale, passo dal convento delle suore “Bene Maria” (Figlie di Maria) fino al vescovado per la messa del mattino (col pile alle 6) e poi torno a casa per colazione. Poi vado nei reparti di pediatria per le visite.
Il reparto più vicino al nostro cancello (e all’obitorio), che si trova dalla parte opposta dell’ingresso principale, era un isolamento; ora ci vanno i più derelitti della pediatria, spesso abbandonati. La prima volta che ci sono andata non c’era neanche un infermiere; le culle sono unite con dentro le mamme che dormono con i bambini con la flebo di glucosata e chinino. Tutti hanno la malaria grave (goccia spessa +++) ed emoglobina a 4 – 5 g% (penso che anche i non esperti capiscano). Quindi sono sottoposti a trasfusioni e terapia con chinino in vena. Dopo che ho scoperto quel padiglione spesso passo dentro… per ora a salutare. Da sola non posso fare molto perché le mamme parlano solo kirundi. Dall’altra parte del nostro cancello invece c’è il piccolo gioiello della Kinesitherapie, dove Silvia e Francesco, con suor Costancia fanno tali prodigi, che tutti i malati dell’ospedale, quando il medico non sa cosa fare, vengono inviati lì, alle Kinè! Fa piacere vedere un reparto in ordine, perché vuol dire che è possibile.
Poi passo dal centro nutrizionale a vedere se i bambini mangiano, se la mia orfanella di madre sieropositiva, accudita dalla nonna, che a un anno pesa 4 kg, mangia il latte terapeutico e cresce. Infine, dall’altra parte dell’ospedale c’è la neonatologia e la pediatria.
Qualche volta ho fatto il giro con il dottor Juvenal o con il dottor Longine, per cercare di capire come si muovono; io visitavo i bambini, loro scrivevano (se non ci sono io, scrivono soltanto!). Hanno dalla loro che le patologie sono così eclatanti e gli strumenti diagnostici così pochi, che basta guardare a distanza (anche se non sempre funziona). Così ho scoperto che Longine ha una figlia che ha conosciuto il gruppo dei Focolarini e Juvenal, che sembra un ragazzo, ha una figlia che studia medicina in Francia.
Tutti i giorni, mattina e pomeriggio, passo dalla neonatologia: ci sono circa 20 culle, di cui 2 termiche e 2 incubatrici. Qui arrivano tutti: prematuri partoriti a casa o in dispensari, asfittici, bambini con malformazioni; è tutto pieno, i gemelli occupano un solo lettino, abbiamo avuto anche una tripletta, erano sopra i 1.800 gr, quindi sono andati in stanza con la mamma. Quando raggiungono 1.200 – 1.300 gr, se stanno benino, si mandano a casa, stile canguro (al caldo sul seno della mamma). Fortunatamente quasi tutte le mamme hanno il latte. Per essere un ospedale universitario (o quasi) potrebbe funzionare un po’ meglio! Per ora osservo, cerco di capire, di conoscere infermieri/e e medici e di farmi degli amici; faccio quello che posso, compreso scherzare con le mamme, o festeggiare quando il neonato ha raggiunto 1 kg.
Venerdì sono stata in sala operatoria tutta la mattina per un neonato con atresia anale, forse aveva anche le vie urinarie non pervie. Aveva solo una lastra dell’addome; Vania ha cercato di fare un’ecografia (qui nessuno le sa fare) per capire se c’erano i reni. Poi il dottor Claude ha fatto un intervento di colostomia; verso la fine dell’operazione la ferrista è stata male (o forse voleva andare a casa) quindi mi sono lavata e ho aiutato a terminare. Prima, d’accordo con la mamma, suor Theresa, una burundese, assistente sociale che segue i poveri dell’ospedale, ha battezzato il piccolo. “Che nome gli hai dato?”, le ho chiesto. Risposta: “Ireneo” (come dire: che domande fai? Oggi è sant’Ireneo!). La notte successiva Ireneo è andato in paradiso a raggiungere l’Ireneo più noto a noi, ma non agli occhi di Dio. Non è facile abituarsi a queste morti, a questa impotenza. Tieni stretta la manina piccola e offri a Dio che sa come conduce la storia. Mi hanno comunque colpito il medico, l’anestesista, le infermiere, per il tocco di umanità, che è più evidente di fronte all’estremo dramma che alla normalità (se qui si può parlare di normalità).
Nella neonatologia ci sono due stanze: una è per le culle, l’altra per le mamme che vengono ogni 2 – 3 ore ad allattare, a tenersi i piccolini per scaldarli e prepararsi per quando torneranno a casa, così un’infermiera può controllare tutto.
Mi sono rimessa a studiare, anche se pensavo di aver finito nella mia vita. Ma di fronte alla domanda e al bisogno, una risponde, sempre, non si va in pensione dalla vita e dalla vocazione, e anche questa è una bella provocazione. Sto cercando di mettere insieme un po’ di idee per il mio ritorno e vedere se con Benedetta riusciamo a coinvolgere personale e mamme con un po’ più di metodo.
Alla sera (non scandalizzatevi) si mangia alle 7.15, perché di solito c’è la famiglia con i bambini piccoli, verso le 8.30 ci si ritira e, anche se cerco di leggere un po’, prima delle dieci la stanchezza subentra. Ho letto nell’equipe della stanchezza senza ombra, là dove uno ha servito la verità con grande amore. Chiedo che questa sia la mia stanchezza. Al mattino si riprende.
Ho conosciuto un’altra suora che si chiama anche lei Bruna e segue i ragazzi di strada che dormono al mercato. Hanno dai 5 ai 15 -18 anni; con loro fa un lavoro bellissimo: panificio, falegnameria, artigianato, anche scuola e poi insegna un ordine; ci ha fatto vedere gli armadietti dei loro vestiti, più in ordine del mio! E’ qui da una vita. Vania segue i suoi bambini quando sono malati o ricoverati. Con lei c’è Teresa, una ragazza umbra di 19 anni, che dopo la maturità ha voluto fare un anno di volontariato.
Domenica, con Francesco e suor Bruna, sono andata alla messa nel carcere maschile. Nel grande salone tutti i carcerati erano vestiti a festa, o almeno con le camicie pulite, anche se con i buchi. Cantavano, battevano le mani e le muovevano nella danza tipica, con le braccia alzate come le corna delle loro vacche, la loro ricchezza. Osservavo i loro sguardi attenti, fissi al prete che parlava in kirundi … chissà perché sono li? Ho provato una grande tenerezza. Ho scoperto che le Sorelle della Misericordia per vocazione si prendono cura anche dei detenuti e in Italia avevano una comunità proprio dentro il carcere, in comune con le donne recluse.
Francesco, il fisioterapista, rientrerà in Italia settimana prossima. Così sarò sola nella casetta, con i vicini, la famiglia e Silvia. Sto bene e mi sto affezionando a questo posto. Chiedo come posso servire in questa avventura nata da una serie di circostanze non cercate né pensate.
(di Chiara Mezzalira)
(secondo di una serie di tre articoli)