Venti inquietanti spirano dall’India in queste ultime ore. Si parla infatti di richiesta di pena di morte in caso di condanna per i due marò, agli arresti dal febbraio di due anni fa, in una contesa kafkiana che vede l’Italia impotente a giungere ad alcuna possibilità di liberazione, adesso anche di salvare loro la vita. Si attende nel giro di un paio di giorni, tre al massimo, la decisione del governo indiano sulla pena di morte, richiesta da parte della Nia, la polizia investigativa indiana, basandosi sul Sua Act, una legge anti terrorismo che prevede appunto la pena di morte. Ilsussidiario.net ha chiesto a Carlo Culti Gialdino, docente di diritto internazionale nell’Università di Roma La Sapienza, che cosa può realmente accadere. “Sappiamo ancora poco di quello che effettivamente sta succedendo in questi ultimi sviluppi del caso. Ma certamente non è possibile applicare la legge sul terrorismo sul caso dei due marò, nessun giudice indiano potrebbe arrivare a tanto”.



Professore, che ne pensa della richiesta di condanna a morte per i nostri due soldati?

La dichiarazione di atti terroristici a carico dei nostri due soldati è qualcosa che si era sempre saputo, non è una novità.

Come giudica il fatto che in India il ministero degli Esteri abbia detto che non ci sono gli estremi per la pena di morte, e quello degli Interni invece abbia detto il contrario?



Questo succede perché ovviamente nessun ministero, compreso quello degli Esteri, potrà mai dare assicurazioni su questo o altro, dato che la faccenda è al vaglio della magistratura, e se accadesse qualcosa del genere significherebbe che la magistratura indiana non è indipendente.

Ma secondo lei, dal punto di vista del diritto e della legge, ci sono gli estremi per parlare di pena di morte?

Direi proprio di no, ed è questa la cosa da capire: perché riconducono il caso a un atto di terrorismo dato che non ha nessuna congiuntura con atti di terrorismo?

Già: perché?

L’applicazione della legge in questione non significa che qualunque delitto capiti in acque internazionali sia riconducibile al terrorismo. Questo di cui discutiamo non è un caso di terrorismo, anzi era una missione di interesse internazionale, quindi non è terrorismo. Quello a cui si può arrivare come massimo di colpa è un eccesso colposo di reazione da parte dei due marò. 



Però c’è molta confusione, sembra di capire.

In queste ore si legge un po’ di tutto, e non mi riferisco alla stampa italiana, che si limita a riportare lanci di agenzie, ma a quella indiana, che è ovviamente molto più informata di noi. Ho letto ad esempio che potrebbe esserci una richiesta di incriminazione ai sensi della legge sul terrorismo, salvo poi derubricarla perché ci fu ai tempi l’assicurazione del governo indiano al nostro governo che non si sarebbe mai proceduto con la pena di morte, ma questo un giudice non potrà mai farlo.

Perché? 

Per le stesse ragioni che le dicevo prima, altrimenti non saremmo davanti a un giudice indipendente dai poteri dello Stato e questo è inammissibile per qualunque giudice. Però può succedere un’altra cosa.

 

Quale?

Ricordiamoci che nel caso in questione la polizia giudiziaria indiana sta svolgendo il compito che da noi svolge la procura. Allora dovranno andare davanti al giudice monocratico (giudice unico che svolge la funzione giurisdizionale, ndr) con la loro richiesta, e il giudice potrà modificare l’ipotesi di reato. Dire cioè: in questo caso non si procede per terrorismo e quindi non si arriverà mai alla pena di morte, ma si procederà con un altro titolo. E credo proprio che succederà così perché, come detto, non siamo davanti ad alcun reato di terrorismo.

 

In caso estremo di condanna a morte, che cosa si potrà fare dal punto di vista dell’ordinamento internazionale e nazionale per evitare la pena?

Intanto nell’ordinamento italiano ci sarà certamente la possibilità di ottenere la grazia. 

 

E la comunità internazionale? Sappiamo bene che ad esempio tante richieste di grazia agli Stati Uniti in caso di condanne a morte sono state bellamente ignorate dagli Stati Uniti. 

Ovviamente ci si muoverà a livello internazionale, ma l’esempio che lei ha fatto degli Stati Uniti calza a pennello. Il caso dei marò è molto diverso, e gli Stati Uniti in caso di condanne a cittadini di altri Stati hanno dovuto accettare le richieste della comunità internazionale. Pensiamo al caso di alcuni cittadini tedeschi e messicani incarcerati senza che il governo americano avesse avvisato i governi dei singoli Stati, qualcosa che è totalmente contrario al diritto internazionale. I singoli governi sono andati davanti alla Corte internazionale di giustizia e hanno ottenuto ciò che chiedevano. Noi invece non abbiamo la possibilità di portare l’India davanti ad alcun tribunale.

 

Perché?

Non ci sono gli estremi, e poi non lo abbiamo fatto quando lo potevamo fare, cioè nel caso del nostro ambasciatore a cui era stato impedito di uscire dal suo palazzo, qualcosa che viola ogni diritto diplomatico internazionale. Se fossimo andati al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite la comunità internazionale si sarebbe mossa.

 

In conclusione le sue previsioni?

Io penso che i nostri due soldati non rischino la pena di morte. Credo veramente che nessun giudice davanti al quale i poliziotti dovranno andare la otterrà. Inoltre bisogna tener conto che sicuramente l’ordinamento indiano prevede un secondo grado di processo. Tutte le convenzioni internazionali applicabili anche all’India prevedono nel penale due gradi di giudizio.

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