Con Ariel Sharon muore un personaggio che si può a ragione assumere a simbolo di un problema, quello del nazionalismo intransigente di buona parte del popolo israeliano, che sopravvive a lui e che realisticamente non si può sottovalutare, né tanto meno ignorare.

Nato nel 1928 nel villaggio cooperativo (moshav) di Kfar Malal, non lontano da Tel Aviv, Ariel Sharon era figlio di ebrei bielorussi immigrati nella Palestina allora sotto mandato britannico. A indurre i suoi genitori all’esodo dalla terra natia erano stati non soltanto il desiderio di tornare nell’antica patria ebraica ma anche e soprattutto le loro convinzioni liberali, che non potevano trovare spazio nella Russia divenuta Unione Sovietica. Giunti in Palestina, entrarono perciò ben presto in contrasto con il kibbutz socialista laico che li aveva accolti e lo abbandonarono per trasferirsi appunto in un moshav, ossia in un tipo di colonia compatibile con i loro principi sia politici che religiosi. 



Sharon dunque da un lato apparteneva a una delle prime consistenti generazioni di “sabra”, ossia di israeliani autoctoni, e dall’altro sia per tradizione familiare che per scelta personale si riconosceva nel filone liberale del movimento sionista. Non in quello laburista, che con David Ben Gurion prevalse politicamente nel 1948 al momento della proclamazione dello Stato d’Israele e poi restò al potere nei trent’anni successivi (fino alla vittoria elettorale nel 1977 dei liberali del Likud e quindi alla nomina a primo ministro del loro leader Menachen Begin). 



Quella lunga permanenza dei laburisti al governo aveva dato in sede internazionale allo Stato d’Israele un’immagine appunto molto laburista, che in realtà è distorta non solo sul piano politico ma prima ancora sul piano sociale. Più che mai nel caso di Israele, questi due schieramenti non sono affatto riconducibili alla storica dialettica europea della “destra” e della “sinistra”. Rappresentano piuttosto i due segmenti marcatamente distinti l’uno dall’altro in cui si articola la società israeliana: uno costituito dagli “askenaziti”, gli ebrei di origine europea occidentale, più colti, più ricchi e con forti relazioni a Londra, a Parigi e Washington, cui dava soprattutto voce il partito laburista e oggi anche altre forze di “sinistra”; l’altro costituito dai “sefarditi”, gli ebrei di origine orientale, araba, e oggi anche in larga misura russa, meno colti, più poveri, figli di nessuno sul piano internazionale, cui dava voce il Likud. 



Paradossalmente rispetto ai luoghi comuni della cultura progressista europea, i laburisti e le altre forze di “sinistra” rappresentano l’establishment; e i liberali e le altre forze di “destra” rappresentano invece gli operai di fabbrica di Tel Aviv e dintorni, il popolo minuto, gli ebrei arabi che senza aver voluto lo Stato d’Israele ne hanno pagate le spese essendo stati perciò costretti a rifugiarvisi per di più con gravi problemi di adattamento a un’economia altamente sviluppata di tipo occidentale alla quale non erano preparati.

Negli anni convulsi della guerra senza esclusione di colpi conclusasi nel 1948 con la proclamazione dello Stato d’Israele, l’ambiente “sabra” e “sefardita” in cui era nato e cresciuto Sharon aveva dato un notevole contributo di uomini e mezzi a forze paramilitari sotterranee come l’Haganah, embrione del futuro esercito israeliano, nonché a gruppi d’azione specializzati in quel genere di attività militare che quando viene fatta dal nemico si usa chiamare terrorismo. Sorto lo Stato d’Israele, per gente come Sharon ci fu ovviamente più spazio nelle forze armate e nei servizi segreti che nella politica. Entrato nell’Haganah quando aveva quindici anni, capitano a ventun anni, ufficiale dei servizi segreti a ventitré anni, generale a ventotto anni, Ariel Sharon sapeva fare bene solo la guerra e non ha mai smesso di farla. Nel 1973 lascia le forze armate definitivamente dopo aver preso parte a tutte le guerre combattute da Israele, ed entra in politica. 

Nel 1977 diventa ministro dell’Agricoltura nel primo governo Begin, e in tale veste… semina colonie ebraiche in Cisgiordania e a Gaza. Ed è ministro della Difesa quando nel 1982 Israele invade il Sud Libano praticamente per sua iniziativa. Sulla scorta di quanto accade da quel momento in poi si può dire che, se per Von Clausewitz “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, per Sharon vale il contrario, ossia è la politica a essere la continuazione della guerra con altri mezzi. Quello che forse non si è capito mai abbastanza in Occidente è che proprio per questo in Israele Sharon era molto popolare nel senso letterale del termine. Si poteva non esserne lieti, ma non era realistico il cercare di non tenerne conto.

Sia per il suo coraggio e le sue capacità militari, sia per la sua idea che con i palestinesi e con gli arabi in genere ci si debba confrontare solo da posizioni di forza, all’insegna del “boia chi molla”, Sharon piaceva moltissimo al grosso di quel popolo minuto di cui si è detto (basti pensare che tra l’altro aveva scelto di abitare nientemeno che nel quartiere musulmano nel centro storico di Gerusalemme, nella città murata non lontano dalla Via Dolorosa, in un edificio sul tetto del quale aveva fatto installare una grande riproduzione della “menorah”, il candeliere a sette braccia simbolo dell’ebraismo).

Perciò era politicamente sopravvissuto a ogni tempesta, compresa la più grave, quella che l’aveva visto costretto alle dimissioni da ministro della Difesa dopo che nel 1982, in quella parte sud di Beirut che era allora sotto occupazione militare israeliana, un reparto (mai identificato forse perché costituito ad hoc e subito dopo sciolto) di miliziani falangisti maroniti aveva compiuto una strage nel campo profughi di Sabra-Shatila. Un atto orrendo, di cui tra l’altro, essendo giunto sul luogo all’indomani del massacro come inviato del settimanale Il Sabato, conservo personalmente una memoria indimenticabile.  

Un atto però che, pur senza affatto giustificarlo, va inquadrato in una situazione nella quale, giungendo a Beirut da sud si attraversavano allora poco prima le rovine di Damour, una cittadina di circa 20mila abitanti a larga maggioranza maronita che nei giorni dell’Epifania del 1976 era stata assaltata da una milizia palestinese che l’aveva rasa al suolo espellendone gli abitanti e massacrandone oltre 500.

Sharon aveva preteso che il massacro – con cui si era evidentemente voluto vendicare Damour – fosse stato fatto a sua insaputa e senza che i reparti israeliani stanziati in prossimità del campo profughi avessero avuto tempo e modo di intervenire. In realtà il campo profughi di Sabra-Shatila si estendeva nelle aree intercluse e anche su parte delle massicciate di un grande svincolo autostradale allora fuori uso, che gli israeliani sorvegliavano dall’alto, da presidi posti sui cavalcavia e altri punti eminenti. Non era dunque possibile che non si fossero accorti per tempo del massacro, e nemmeno che i massacratori fossero entrati nel campo senza il loro consenso.

Benché costretto perciò alle dimissioni da ministro della Difesa, Sharon era rimasto nel governo come ministro senza portafoglio risalendo quindi tutta la china fino a divenire nel 1999 capo del Likud in quell’anno andato all’opposizione dopo la sconfitta di Benyamin Netanyahu. Nella veste di capo dell’opposizione, il 28 settembre 2000 era andato a fare una… passeggiata sulla spianata delle Moschee di Gerusalemme, luogo santo musulmano, da sempre affidata al controllo della polizia palestinese: un gesto di sfida che provocò per contraccolpo la Seconda Intifada, ossia la seconda rivolta generale palestinese.

Ciononostante, anzi grazie a questo, vinse le elezioni nel 2001 sulla base di un programma critico verso gli accordi di pace di Oslo. Rieletto nel 2003, avviò la costruzione del muro che oggi separa Israele dalla Cisgiordania, ma anche nel 2004 il ritiro unilaterale del presidio militare israeliano e delle 25 colonie ebraiche (“insediamenti”) situati nella Striscia di Gaza e dei loro 8mila abitanti. Nel 2005 uscì dal Likud e fondò il nuovo partito Kadima, centrista e liberale, cui aderì anche lo storico leader laburista e Premio Nobel per la pace Shimon Peres. Il 4 gennaio 2006 fu però colpito da un ictus che lo precipitò in un coma da cui non era più uscito.

Con lui è morto un uomo ma non un problema socio-politico, quello del nazionalismo intransigente di buona parte del popolo israeliano, una realtà che dagli anni 90 in poi è statae ulteriormente rafforzata dai nuovi immigrati ebrei russi e dell’Est europeo in genere. Un problema senza affrontare il quale nessuna pace è possibile nel Vicino Oriente.