Con l’accusa al segretario di Stato americano John Kerry di essere un “visionario” e di avere “ossessioni messianiche”, venuta lo scorso 14 gennaio dal ministro della Difesa israeliano Moshe Yaalon (accusa poi ridimensionata ma non smentita dal premier Netanyahu), le relazioni fra Stati Uniti e Israele hanno raggiunto il punto più basso della loro storia. 



Al di là delle cause immediate dell’attrito, ciò che evidentemente irrita Israele è la fretta che Kerry ha di giungere a dei concreti passi avanti sulla via di una soluzione della crisi israelo-palestinese, anche a costo di esercitare su Gerusalemme pressioni maggiori di quelle cui i governi israeliani erano abituati. Israele è da sempre al primo posto nella lista dei Paesi beneficiari di aiuti Usa: i suoi sette milioni e mezzo di abitanti ne ricevono di più, tanto per fare un esempio, di quanti ne ricevano il miliardo e 200 milioni di abitanti dell’India. Israele ha una straordinaria efficienza sul piano sia economico che militare, ma la sua economia e le sue forze armate sono del tutto dipendenti da un costante e gigantesco flusso di aiuti finanziari sia pubblici che privati provenienti dagli Stati Uniti. Se tale flusso si bloccasse, in capo a poche settimane in Israele si fermerebbe tutto, resterebbero senza benzina sia gli autobus che i carri armati. 



Ciononostante, per un complesso insieme di motivi, Israele ha potuto godere di una straordinaria libertà di manovra nei confronti del suo grande donatore. Una grande libertà che per Washington ha avuto spesso dei pesanti costi, che tuttavia un tempo erano sostenibili. Oggi invece, nell’età non più aurea ma argentea della potenza americana, lo sono sempre più meno. Per Israele questo è un vero e proprio shock. 

Farebbe però un errore l’Autorità palestinese a credere che da ciò le derivi un vantaggio strategico. Direttamente o indirettamente tutte le parti in causa dipendevano dallo… zio d’America, anche i palestinesi. Nella misura in cui gli Usa si ritirano, non solo Israele ma anche l’Autorità deve puntare non tanto a vincere, o a perdere un po’ meno, quanto a chiudere finalmente la crisi con dei ragionevoli accordi di pace.



Non potendosi più permettere di presidiare con la medesima intensità ogni regione del mondo, gli Stati Uniti stanno evidentemente procedendo a un loro ritiro seppur parziale dal Mediterraneo e dal Vicino Oriente. Perciò non sono più disposti a gestire nella regione delle crisi sine die. In nome e per conto di Obama, sia nel caso della crisi israelo-palestinese che in quello della crisi siriana John Kerry viene in sostanza a dire di spicciarsi a risolvere i problemi sul tappeto. 

Gli Stati Uniti sono meno forti di prima, ma l’Unione Sovietica è sparita da quasi venticinque anni; e anche se nel gioco delle ombre cinesi Putin è un maestro ineguagliabile, nella realtà la Russia nel Vicino Oriente non conta nulla. 

Quindi la via della pace conviene, anzi s’impone, sia a Israele che alla Palestina. Diciamo ancora una volta che − diversamente sia dagli Usa e dai membri nordatlantici dell’Unione Europea che dalla Russia − i paesi dell’Europa mediterranea hanno un concreto interesse a che il Vicino Oriente, ossia l’antico Levante, sia non solo in tregua ma in pace, non solo in pace ma in sviluppo. Potrebbero fare molto per colmare il vuoto che si sta aprendo a seguito del disimpegno americano. Innanzitutto a Roma occorrerebbe che qualcuno cominciasse a tenerne conto, ma come si fa finché avremo governi fatti di gente che ha il mito del Nord Europa come terra promessa della modernità e che fa come se l’Italia fosse al posto della Danimarca?