Domenica il Brasile andrà alle urne per il voto presidenziale. È una data importantissima, dato che il Paese attraversa una crisi legata a quella mondiale, soprattutto perché in questa tornata è in gioco il modello iniziato da Lula anni fa che, complice anche la scoperta di immensi giacimenti petroliferi, ma anche con una intelligente politica di compromesso tra libero mercato e sociale, ha permesso al gigante latinoamericano di svilupparsi enormemente e di piazzarsi tra le potenze mondiali del pianeta.



Il passaggio di consegne con Dilma Rousseff, in carica dal gennaio 2010,  doveva essere quello di una continuità nelle politiche nazionali, ma sfortunatamente così non è stato. Le manifestazioni contro la sua conduzione, esplose clamorosamente nel corso dei mondiali di calcio, hanno rivelato l’anima di un Brasile che crede fermamente in un cambiamento che privilegi delle politiche sociali atte a garantire un livello di vita decente, evitando di sprecare capitali ingentissimi fini a se stessi come quelli dei mondiali appena trascorsi e, soprattutto, quelli ancor più faraonici delle Olimpiadi. Perché è ampiamente dimostrato come simili manifestazioni attirino sì l’attenzione mediatica, ma in cambio di ingenti spese e alla fine lascino il tempo che trovano pure a livello di immagine.



E se la gran parte della gente si è mossa a manifestare ciò costituisce  una dimostrazione di maturità ad altissimi livelli, specie se consideriamo che il calcio è da sempre un totem portante della cultura del Paese e fino a ieri sembrava intoccabile: ma i mondiali hanno dimostrato che i brasiliani preferiscono, per esempio, avere un sistema sanitario di prim’ordine, poter contare su ospedali decenti e, soprattutto, in tutto il territorio nazionale.

Invece, nonostante il Brasile sia, dopo l’India, la nazione al mondo dove si conta la quantità maggiore di persone che accedono alla classe media abbandonando la povertà, Rousseff non è piaciuta per certe manovre populistiche che ha intrapreso dopo le forti contestazioni del giugno scorso, come per esempio un progetto che mira a cedere le seconde case in affitto agli emarginati delle favelas anziché intraprendere dei programmi di edilizia popolare, quasi che la proprietà, spesso risultato del lavoro proprio della classe media, sia un furto da punire.



Non siamo al livello dell’Argentina dei deliranti discorsi presidenziali dove si parla di nemici dappertutto per giustificare il fallimento delle proprie politiche (che hanno anche provocato le dimissioni del Direttore del Banco Central), però è abbastanza chiaro che, sebbene le manovre populistiche siano legate alla perdita di consenso e siano tese a recuperarlo, è la politica iniziata da Lula che ha bisogno di un’ulteriore evoluzione, per far sì che la parola progresso faccia rima anche con sviluppo rispettoso dell’ambiente. Ecco quindi arrivare sulla scena Marina Silva, candidata per il Partito socialista, che, stando ai sondaggi, ha grandi possibilità di vincere le elezioni.

Ministro dell’Ambiente durante il primo governo Lula, Marina Silva si è subito dimostrata una donna battagliera iniziando una vera e propria guerra per la difesa del territorio, messo in pericolo dall’abolizione delle leggi ambientali per procedere a uno sfruttamento indiscriminato delle risorse (immense) sia dal punto di vista energetico che agricolo. Perse la sua battaglia e si dimise, ma il malcontento della gran parte della gente nei confronti delle politiche di Rousseff ne ha lanciato la candidatura. In lei si riflettono gli ideali sopra descritti, quelli di una nazione che ha un urgente bisogno di ridisegnare delle politiche che privilegino la qualità della vita dei propri abitanti rispetto ad altre tematiche care più alle multinazionali che al Brasile stesso. Non bisogna cedere nemmeno di un passo, pena il disboscamento ulteriore di un polmone verde immenso, l’Amazzonia, che fin dai primi anni Ottanta presenta zone sempre più ampie dedicate al pascolo o all’agricoltura intensiva: sorvolarle fa un certo effetto, anche perché in alcuni punti la terra, legata a un ecosistema di un equilibrio delicatissimo, è ormai talmente sfruttata da essere improduttiva.

Certo è che contro Marina Silva, di umilissime origini, si è curiosamente scagliata una campagna denigratoria da parte di ambienti populisti e anche della Chiesa della Liberazione (il movimento cattolico fondato negli anni sessanta da Padre Boff) che la definiscono come “Il Capriles del Brasile”, facendo intendere che la sua politica sia di esclusione e dipingendola come una rappresentante della destra, come successe al candidato che ebbe il coraggio di contrapporsi al regime chavista in Venezuela, oggi in carcere.

Ma resta il fatto che, seppur in una continuità di politiche che ormai contraddistingue i Paesi latinoamericani emergenti in  opposizione ai populismi che mettono sul lastrico nazioni ricchissime come l’Argentina e il Venezuela, il processo di sviluppo del continente latinoamericano ha bisogno di evolversi per crescere e assicurare un benessere sociale al quale punta questa parte del mondo da sempre considerata una specie di area di proprietà nordamericana ed europea, senza rendersi conto, per esempio, che l’unione di politiche attualmente in corso “rischia” di essere una profonda lezione per un’Europa che continua a essere divisa.

La lontananza dell’America Latina dai conflitti mondiali, le sue ricchezze che finalmente vengono sfruttate in loco, la disponibilità di terre immense da destinare all’agricoltura e, soprattutto, il mantenimento di un ecosistema che ne garantisca la continuità, sono le premesse di un processo che, ne sono sicuro, avrà molto da insegnare a un mondo occidentale in crisi non solo economica ma sopratutto di ideali.