La notizia è arrivata nei giorni scorsi ed è stata confermata dal governatore del Texas Rick Perry: un uomo di cui viene riportata anche l’identità, Thomas Eric Duncan, partito dalla Liberia e atterrato a Dallas ha manifestato i sintomi del virus Ebola e, dopo la conferma sierologica si trova in isolamento presso il Texas Health Presbytarian Hospital. E’ il primo, temuto caso di infezione diagnosticato direttamente nel territorio statunitense, caso molto diverso da quelli del personale sanitario infettatosi in Africa e trasportato negli Usa per le terapie. La globalizzazione virale, già in atto da secoli, ma incrementata esponenzialmente negli ultimi decenni da Aids, Sars ed influenze varie, ha subito un’escalation fino a ieri inimmaginabile.



Mr Duncan era già approdato al pronto soccorso dello stesso ospedale e poi rimandato a casa con una terapia domiciliare; nei giorni seguenti, aggravandosi il suo stato di salute, ha dovuto nuovamente ricorrere alle cure dei sanitari. Dopo il suo arrivo in Texas ha quindi avuto a disposizione almeno quattro giorni in cui ha potuto contagiare un numero ipotetico di parenti o persone occasionali.  Come ogni paziente di una struttura sanitaria americana aveva compilato questionari sui quali si chiedeva se avesse viaggiato in Africa occidentale di recente, e ai quali aveva risposto correttamente sì. Ma la burocrazia sanitaria non aveva rilevato il pericolo. Adesso giunge notizia di un secondo caso sospetto a Washington: l’Howard University Hospital ha reso noto di aver identificato un paziente con dei sintomi della malattia e di averlo posto in isolamento. Il paziente, “che viene trattato con molta cautela” fa sapere l’ospedale, avrebbe viaggiato di recente in Nigeria. 



Gli specialisti del Cdc di Atlanta sono a Dallas per compiere il cosidetto “contact tracing”, cioè l’identificazione ed il raggiungimento dei contatti avvenuti, tutte le persone esposte al contagio e potenzialmente infette. Per 21 giorni, il tempo massimo di incubazione del virus, dovranno essere monitorati ed isolati fino alla scadenza del periodo critico.

Poiché il virus è contagioso solo a partire dai primi sintomi, per i passeggeri che hanno preso lo stesso volo non dovrebbero esserci rischi. Thomas Frieden, direttore del Cdc, si è detto certo che il focolaio verrà debellato sul nascere. E ha aggiunto che gli ospedali americani sono preparati ad affrontare questa situazione.



Ma saprà rivelarsi davvero efficace in questa sfida la sanità Usa? Già nella reazione al primo caso di Ebola sono emerse inefficienze ed errori gravi. Adesso la psicosi arriva anche a Wall Street. Calano i titoli delle compagnie aeree. Si teme un bis della Sars cinese, che nel 2003 paralizzò gli aeroporti e i viaggi. Gli Stati Uniti si dicono comunque pronti all’emergenza. Obama ha affermato che gli Usa sono chiamati a guidare la risposta globale a questa minaccia sanitaria. “E’ stato chiesto a noi e non a Mosca o a Pechino” ha affermato con orgoglio. 

Ma con quali armi? In Africa sinora tutti i focolai epidemici di Ebola sono stati domati attraverso le classiche tecniche e teorie dell’igiene pubblica: prevenzione di contatti, controllo ed isolamento dei casi sospetti. Nonostante l’assenza di farmaci o vaccini questi approcci apparentemente empirici fino a ieri hanno funzionato.   

Sfortunatamente ora è diverso. Anche se il virus è lo stesso, la scena del crimine è molto cambiata: in Africa il virus dai villaggi è approdato in ambienti urbani in cui ha infinite possibilità di trasmissione; qui è ancora molto presente la diffidenza verso la nostra medicina occidentale, per cui, prima o invece che riferirsi alle strutture sanitarie, il malato preferisce affidarsi allo stregone od ai guaritori, o seguire terapie tradizionali, il che si traduce in un ritardo di cura ed in un incremento delle infezioni e delle morti. Anche le Ong occidentali incontrano spesso terreno sfavorevole e boicottaggi da parte della gente comune.

I funerali o i riti mortuari aumentano ulteriormente i contatti a rischio. Un altro capitolo doloroso è la morte di numerosissimi operatori sanitari, medici o infermieri, che hanno portato alla chiusura di innumerevoli ospedali e centri sanitari. E molti di quelli ancora funzionanti, forse per la prima volta nella storia, sono costretti a tenere le porte chiuse, a rifiutare i ricoveri di pazienti allo stremo perché pieni all’inverosimile e senza più alcuna disponibilità di mezzi o personale. Si sono verificate morti disperanti davanti ai cancelli chiusi. Il numero di operatori sanitari ed esperti occidentali che lavorano in Africa è ridotto, del tutto insufficiente, per l’elevatissimo rischio che questa situazione comporta. E di farmaci o vaccini di massa, al di là di una colpevole propaganda, non si è ancora vista traccia. Ora l’Organizzazione mondiale della Sanità ha stabilito di adottare un vaccino italiano anti Ebola: verranno distribuite 10mila dosi entro dicembre e per il 2015 si sta trattando una fornitura di un milione di provette con la GlaxoSmithKline, che quest’anno ha acquistato per 250 milioni di euro l’italiana Okairos, sviluppatrice del brevetto del vaccino.

Per ora è ancora così, tra scafandri bianchi e spray di candeggina.

E nel mondo occidentale? A questa domanda non è ovviamente possibile rispondere anche se le misure per questa minaccia sono in fase di attuazione. Ma la situazione è molto complessa. A livello globale oggi è possibile viaggiare molto lontano in brevissimo tempo, attraverso nazioni e continenti. I teorici contatti di una portatore di virus Ebola sono praticamente impossibili da identificare e tanto meno da rintracciare. Il teorico “untore” può arrivare indisturbato in ogni momento ed in ogni aeroporto.

Dalla scoperta del primo virus di Ebola nel 1976, l’attuale epidemia è di gran lunga la più grave. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha calcolato che ha già fatto oltre 3.500 morti, su 7.500 contaminati: un tasso di mortalità elevatissimo che supera il 50% delle persone infette.   

Molte sono le previsioni, da una pandemia, con catastrofe umana e sociale di dimensioni bibliche, ad una riduzione spontanea dell’epidemia: per la prima volta da decenni l’occidente vede concretizzarsi una minaccia sanitaria ancora invincibile. La stessa Oms ha lanciato un allarme: questa epidemia potrebbe contaminare 20mila persone in un solo mese. Un modello informatico elaborato in America dal Cdc arriva a prefigurare 1,7 milioni di morti da qui a gennaio, se l’epidemia non sarà arrestata.

Se il vaccino o altre terapie funzioneranno, come sperato, sarà necessario però mettere sotto controllo il virus non solo in occidente ma anche nei paesi poveri, a differenza di quanto è stato fatto con l’ Hiv che in Africa genera ancora vittime e sofferenza. Se il problema è globale, globale dovrà essere la risposta.