Pacifista argentino, Premio Nobel per la pace 1980, Adolfo Perez Esquivel è stato testimone diretto degli anni Settanta latinoamericani. Arrestato in Brasile, incarcerato in Ecuador e successivamente in Argentina, è stato fondatore del Serpaj, un’organizzazione per la difesa dei diritti civili con sedi nell’intero continente latinoamericano. Lo abbiamo intervistato in quel di Buenos Aires per parlare di quella decade tristemente famosa nel mondo intero.
Negli anni Settanta l’Argentina visse un periodo drammatico di cui lei è grande testimone: perché la violenza raggiunse dei limiti inimmaginabili?
In primo luogo, il caso Argentina non è isolato ma faceva parte di un piano che si impose in tutto il continente attraverso la dottrina della sicurezza nazionale. Questa nasce nelle accademie militari sia degli Stati Uniti che latinoamericane e, posteriormente, nel 1964, nella scuola di guerra brasiliana, quando i militari provocano il Colpo di Stato. È un modello sia politico che economico che implica un controllo sociale, culturale ed educativo. Si neutralizzano, dominandoli, i movimenti sociali e si includono in ciò anche i gruppi progressisti religiosi, come quelli della Chiesa cattolica ma anche delle Chiese evangeliche di tutto il continente. Quindi, se esaminiamo l’Argentina il Colpo di Stato avvenne nel 1976, ma nel ‘73 ci fu già in Cile, nel ‘64 in Brasile, in Paraguay c’era già la dittatura di Stroessner….si potrebbe continuare perché il fenomeno, lo ripeto, era generale.
In Argentina però ci furono i desaparecidos…
In pratica si presero in esame esperienze simili operate dai francesi durante l’occupazione dell’Algeria e quelle di Franco in Spagna durante la Guerra Civile dove c’era un colonnello medico, Antonio Nagra, che introdusse la sparizione di persone e di bambini; ma l’Argentina, lo ripeto, non è un caso isolato. Per comprendere le cause che hanno generato questa situazione bisogna considerare altri fattori: come il Concilio Vaticano II e i suoi straordinari effetti in America Latina, dove si assiste a una rivoluzione con Don Helder Camara o il Cardinale Paulo Evaristo Arns in Brasile. C’è poi da registrare un fatto sconosciuto.
Quale?
Al termine del Concilio Vaticano II, Don Camara convocò un gran numero di Vescovi latinoamericani e non per presenziare a quello che poi venne definito “Il patto della Catacomba”, perché si svolse presso la Catacomba di Santa Domitilla a Roma. Lì nasce un accordo che ha il suo cardine nel tornare a una Chiesa più rispettosa dei Vangeli, rivolta ai poveri e ferma nel denunciare le ingiustizie: insomma, cose profetiche di una Chiesa che inizia, proprio dal Concilio, con Giovanni XXIII, a buttar fuori dalla finestra la polvere e a vedere la luce. Qui inizia anche un cambio del quale molti non si rendono conto.
In che senso?
Una cosa è lavorare per i poveri, un’altra è farlo con i poveri. Da ciò sorge la Teologia della liberazione, un rinnovamento spirituale che ha tra i principali protagonisti il peruviano Padre Gutierrez, il brasiliano Padre Boff e il colombiano Camilo Torres Restrepo. Ciò ovviamente procura seri problemi con la politica vaticana. Nel 1959 a Cuba scoppia la rivoluzione, che inizialmente venne appoggiata da molti cristiani. Poi le cose sono ovviamente cambiate, ma da lì sorgono molti movimenti di liberazione del continente latinoamericano che praticano la guerriglia, alcuni dei quali in Argentina.
Ma a che si deve questa proliferazione?
Ovviamente al fatto che in tutta l’America Latina c’erano dittature. Quella del 1976 in Argentina non è altro che la fine di un cammino fatto di 50 anni tra democrazie deboli che mai hanno concluso il loro mandato e governi militari. La Chiesa si è divisa tra chi militava accanto ai poveri e chi invece collaborava con la dittatura. Per questo credo che l’analisi su quel periodo debba essere più critica e profonda, cercando di comprendere. Qui ci sono stati vescovi, come Monsignor Enrique Angelelli che solo dopo 30 anni si è saputo che è stato ucciso, così come Monsignor Romero in Salvador.
Sì, in effetti molti hanno perso la vita…
Ci sono molti uomini di Chiesa martiri dell’America Latina, ma per me non sono morti, sono semi piantati che hanno dato e stanno dando frutti copiosi, come dice il Vangelo. Credo che sia giunta l’ora di riconoscere questi semi di vita, queste voci profetiche di un continente…
Tornando a quegli anni, in Argentina si sono toccati vertici di violenza inauditi. C’erano due contendenti, militari e gruppi armati, che usavano le armi…
Sì, ma c’è differenza. Quando i poveri sono sottomessi, oppressi, castigati usano i mezzi che vogliono, alle volte c’è la violenza. Noi siamo tra quelli che hanno scelto la non violenza come resistenza sociale e culturale e da questo sono sorti i movimenti per i diritti umani, che si sono sviluppati in molti Paesi latinoamericani. I vescovi citati prima avevano il principio della non violenza nella loro ferma opposizione ai soprusi dei regimi dittatoriali. Io non separo quello che è successo in Argentina dalla situazione del continente, ma qui si è raggiunta una durezza e una crudeltà enorme… in nome dei principi della civiltà cristiana occidentale.
Difatti i due schieramenti combattevano in nome di Dio…
Ne parlai con Giovanni Paolo II, che ho incontrato parecchie volte, e quando gli ho passato il dossier sui bambini sequestrati e scomparsi si è detto “Questo lo fa una dittatura che afferma di voler difendere i principi della civiltà cristiana occidentale: una cosa aberrante”.
Come i voli della morte, altro capitolo agghiacciante.
Sì. Proprio qui, a questo tavolo, dove tu sei seduto, si è presentato il capitan Scilingo (uno dei cosiddetti piloti della morte, ndr) che ha avuto il pregio di essere l’unico a confessare i fatti. Diceva: “Noi eravamo convinti che quello che compivamo fosse funzionale a togliere di mezzo esponenti del comunismo internazionale. Una volta atterrati, dopo aver buttato in mare 30 persone, venivamo ricevuti dal cappellano che diceva messa in ringraziamento a ciò che avevamo compiuto”. Il fatto è che queste persone, dopo aver compiuti i loro misfatti, rientravano a casa e si comportavano come se nulla fosse, da esemplari padri di famiglia…
Veramente incredibile…
Abbiamo svolto profondi studi al riguardo e scoperto un meccanismo comportamentale che si può chiamare “la sospensione della coscienza”. E guarda caso si manifesta specialmente tra le forze armate: se tutti operano le stesse azioni (anche riprovevoli), la colpa viene suddivisa e quindi si diluisce. È il metodo ampiamente utilizzato da Hitler. Eichmann non era cosciente di quello che faceva, perché era convinto, da quel comportamento condiviso, che fosse la cosa giusta. Aberrazioni accettate in nome di valori superiori, quali Dio e la Patria, l’onore…
Lei poi ne è stato purtroppo testimone diretto.
Sì, sono stato torturato e la cosa incredibile è che ciò veniva operato quasi allegramente, convinti di essere dalla parte del giusto. Ho potuto anche vedere un religioso prigioniero che sulla parete di una sala dove praticavano torture scrisse con il suo sangue “Dio non uccide”: un atto di fede straordinario. Ma qui molti religiosi non lo capirono e giustificarono i metodi militari.
Mi scusi, ma allora sia l’Erp che i Montoneros, secondo lei, usarono la violenza solo per difendersi?
Loro pensavano di attuare una liberazione dall’oppressione che subivano i poveri, un metodo che io non condivido assolutamente, però allo stesso tempo, lo ripeto, in tutta l’America Latina operavano organizzazioni non violente, cercando di modificare le cose attraverso l’azione sociale, nella quale il popolo è protagonista.
Cosa pensa della politica sui diritti umani di questo Governo? Degli scandali che hanno investito organizzazioni per i diritti umani fedeli alla sua politica? E della nomina a capo dell’esercito del Generale Milani, uno che, ormai è certo, è implicato in casi di sparizione di persone?
A questo Governo bisogna riconoscere che ha fatto dei progressi su alcune tematiche come per esempio l’abolizione delle leggi sull’impunità operate da Governi precedenti, che in pratica avevano sollevato dalle loro responsabilità i militari. Però non sono d’accordo sulla manipolazione dei diritti umani a fini partitici.
Insomma, usarli come scudo per le proprie politiche…
Sì, questo è tragico. Noi qui, come organizzazione, ci manteniamo indipendenti e non abbiamo mai ricevuto sussidi da nessun Governo. Paghiamo dei costi politici per tutto questo, ci ritengono dei “nemici”, però questo Governo ha ristretto la politica dei diritti umani alla sola epoca della dittatura. Sono appena rientrato da una manifestazione davanti alla residenza del Governo per difendere i diritti degli Wichis, un’etnia autoctona della Provincia di Formosa, dove questi indios vengono arrestati, perseguitati, gli vengono tolte le terre: con una giustizia che dipende dal potere politico.
Questi non sono diritti umani a quanto pare…
Su questa questione (quella dei popoli nativi, ndr) abbiamo lavorato tantissimo, senza riuscire a progredire nemmeno di un passo. Le etnie originarie ricevono accuse, sono perseguitate, non godono di nessun diritto. Quello che dico sempre è che democrazia non è mettere il voto in un’urna. Democrazia significa uguaglianza di diritti per tutti e questo, in Argentina, non esiste. L’attuale è in pratica un Governo nel cui modo di confrontarsi il dialogo è assente. E senza dialogo non c’è democrazia: quando si impongono le cose è autoritarismo.
In pratica una dittatura camuffata?
Non so se possiamo definirla una dittatura, però è chiaro che ciò è preoccupante.
Tornando a occuparci degli anni Settanta, lei ritiene che una soluzione “alla Sudafricana”, cioè con una pacificazione, dovuta anche alla scomparsa di molti protagonisti di questa triste epoca, curerebbe una ferita ancora aperta in Argentina? E ciò non si rivelerebbe anche un mezzo per conoscere particolari che permetterebbero di risolvere molti casi aperti sia di sparizione di persone che di bambini, visto che molti militari, con la situazione attuale, non parlano per non essere inquisiti?
L’Argentina è un Paese dove sono stati giudicati i crimini contro l’umanità, cosa che in Sudafrica non è successa. Non ci può essere riconciliazione se non ci sono il pentimento e il diritto alla verità e alla giustizia. Qui tuttavia ci sono molti desaparecidos sui quali non si sa più nulla. Il problema è fino a dove si arriverà con le cause, perché i crimini contro l’umanità non godono di prescrizione, come successo con il nazismo. Però dovremo chiudere queste ferite: ho parlato con militari sia della Marina che delle Forze armate che non hanno vissuto quel decennio e mi hanno confessato che il peso di quell’epoca è ancora presente in ognuno di loro. Ma come si può pretendere che una madre perdoni qualcuno se suo figlio è sparito e non se ne sa nulla? Io personalmente posso, ma un Paese non può perdonare un genocidio.
Cosa si può fare allora?
C’è da augurarsi che le Forze armate e la società inizino a dialogare, perché molti settori militari, lo ripeto, sono coscienti che un esercito, la cui funzione dovrebbe essere al servizio del popolo, in quell’occasione si sia trasformato in truppa di occupazione, come nell’epoca nazista. Non mi potrò mai scordare che, nelle sale del centro dove mi avevano portato per torturarmi, fossero dipinte grandi svastiche alle pareti con la scritta “nazionalismo”.
D’accordo, ma le violenze operate dai gruppi terroristici armati non sono da considerarsi ugualmente crimini?
Se uno Stato adotta la violenza, ciò è un crimine contro l’umanità e quindi non ha prescrizione. I metodi pur ingiustificabili usati dal terrorismo rientrano nella legislazione comune e quindi cadono in prescrizione… questo secondo leggi internazionali.
Oltre al dialogo da lei augurato, quali altri mezzi si devono usare per far sì che questi crimini non si ripetano?
Parlarne e dibatterne: noi da anni a Chapadmalal organizziamo incontri dove informiamo su quanto accaduto persone che quell’epoca fortunatamente non l’hanno vissuta. Lo facciamo anche promuovendo incontri nelle istituzioni militari affinché la memoria non si perda. E che queste tragedie non accadano mai più….nunca mas!
(Arturo Illia)