Ieri finalmente fuori dall’ufficio, che sembra già di essere “sul terreno”. Le strade, le scuole e la gente anche a Juba sono come quelle di Isohe e Torit. Sempre della stessa vita si tratta. Martina, mia collega in Fondazione Avsi, è qui a Juba da luglio, per il progetto di costruzione e avviamento di quattro laboratori informatici, finanziato dalla ST foundation, per giovani e adulti. Quattro a Juba e uno a Torit.
Finalmente vado con lei a vedere le scuole dove stiamo finendo di preparare i laboratori. Questo progetto, così come gli altri, significa costruzione di relazioni. A Juba i donatori non credono sia necessario investire fondi per progetti di sviluppo. Eppure se ti ci muovi, capisci che è falso pensare che i bisogni non ci siano.
Prima la scuola secondaria Daniel Comboni, poi la primaria St. Joseph e infine la scuola primaria St. Kizito.
La st. Kizito è proprio vicina alla zona dove lo scorso dicembre i Nuer scappavano dalla caccia all’uomo dei Dinka. La scuola è a Gudele, la caccia a Munuki, un quartiere fantasma. La st. Kizito non sembra una scuola, è abbandonata. Solo un cartello per la prevenzione al colera e dei bambini e ragazzi che chiacchierano sotto gli alberi del cortile. Una scuola abbandonata, sembra. Martina mi dice che ci fanno lezione, ma ci sono tanti bambini, pochi insegnanti, poche classi, solo tre latrine, nessuna cura.
Stanno sistemando l’aula dove ci sarà il laboratorio di informatica, mettono porte e finestre nuove. Intorno a porte e finestre, mura e pavimento di un luogo che sembra bombardato. Non smettiamo di pensare a dei muri bianchi, un pavimento pulito e una scuola che sappia di vita e non di abbandono. Juba poverina, una capitale che non è altro che un grande villaggio. Un’anima che non si capisce che identità abbia. Dinka, Nuer, ugandese, etiope, eritrea, keniota. Città di espatriati che provano a costruire una parvenza di vita occidentale. Ma siamo sempre sul Nilo, e Juba se lo ricorda.