Nelle vicende degli ultimi giorni si possono delineare, con estrema chiarezza e nitidezza, le due anime della Turchia di oggi. Una che vorrebbe il ritorno all’Impero ottomano e alla sua arretratezza sociale, l’altra che combatte perché il patrimonio di modernizzazione e di libertà lasciato in eredità da Ataturk non muoia sotto le spire di una reislamizzazione forzata. 



Lo scontro si consuma in tre giorni. Il primo a lanciare il guanto di sfida all’estremismo di ritorno è il presidente della squadra di calcio turca del Gençlerbirligi, Ilhan Cavcav, 80 anni e convinto assertore che lo sport debba essere un modello per i giovani e per le nuove generazioni. La sua richiesta? Vietare ai calciatori che giocano in Turchia di portare lunghe barbe perché, dice, “sono sportivi e non studenti di scuole coraniche. Dovrebbero essere un esempio per i giovani”. 



La sua battaglia arriva quando ormai allenatori e calciatori, in Turchia, portano sempre più spesso la barba lunga, che di questi tempi evoca immagini pesanti da digerire per chi è amante e sostenitore della libertà e odia il salafismo che spesso si nasconde dietro quelle barbe. 

Apriti cielo. Il ministro dello sport liquida in fretta e con freddezza la questione con il concetto che “ogni sportivo può scendere in campo come vuole” e allo stesso tempo la polemica investe Cavcav, accusato di essere contro la religione islamica. Alla fine non resta che una parziale retromarcia, invocando una cattiva comprensione delle sue parole e spiegando che quello voleva solo “essere un consiglio da padre o da nonno”. 



Noi che ci illudevamo che la censura anti-islamica fosse una prerogativa europea di cui andare orribilmente fieri. E i paladini della reislamizzazione non solo non lasciano, ma raddoppiano. Ad Ankara le cose stanno andando sempre peggio e il segno lo traccia, con un’eloquenza tombale, la presa di posizione del Direttivo Affari Religiosi turco, che per la cronaca risponde direttamente all’ufficio di Erdogan, secondo il quale è “contrario all’Islam condividere foto sui social media”. Non che io sia un’amante appassionata dei social networks e dei meccanismi che spesso mettono in moto, ma vedo con una certa nettezza dove vuole arrivare quest’affermazione: niente più immagini dell’uomo, niente più foto e volti, niente di niente così da tornare ad una società confessionale e totalmente aniconica.

Il segno della volontà di ritorno, come detto all’inizio, alle abitudini ottomane sradicando totalmente l’esperienza democratica e liberale della Turchia moderna. Ankara scivola sempre più verso una deriva estremista e rigorista della visione della società, improntata alla sempre crescente volontà di Erdogan di far tornare il Paese ad un passato di oppressione e di oscurantismo culturale e religioso.

Una volta i giovani di Gezi Park sono riusciti a fermare l’onnipotenza del nuovo Sultano di Istanbul: riusciranno ancora una volta, qualora la morsa del potere si stringa anche attorno ad Internet, a stopparlo? L’Europa guarderà ancora ad Ankara come ad un potenziale membro dell’Unione oppure si accorgerà che la sfera dei diritti civili a quelle latitudini diventa sempre più esigua e in pericolo?