Da quando il “progressismo populista” è stato spazzato via dall’Europa degli anni ‘90, gli Stati Uniti d’America hanno creduto che il loro modello non aveva più concorrenti nel mondo. Se il “progressismo populista” – nelle sue declinazioni democristiane, socialiste e liberali – tra i tanti difetti aveva il pregio di sintetizzare in modo sistemico un’evoluzione storica e antropologico-culturale lunga di vari secoli, il modello unipolare ha proposto e imposto un finto sistema dell’alternanza democratica che invece è incentrata sui più biechi e arroganti interessi dei pochi su tutti gli altri. Così, finte sono le polarizzazioni dello spettro politico – perché difendono lo stesso obiettivo pur privilegiando bande contrapposte nella gestione del potere – mentre vera è la crescente stratificazione sociale e culturale, che in un torbido miscuglio di diritti sempre meno esigibili e repressione fisica o manipolativa sottende alla violenza dilagante.



Questo stato delle cose è ben visibile negli affari interni – il britannico The Economist ha pubblicato una tabella che mostra come nell’anno 2013 i morti per mano della polizia negli Usa siano stati 403, in Germania 3, e nessuno in Giappone o nel Regno Unito – e negli affari esteri i morti causati direttamente o indirettamente dagli interventi “umanitari” americani e dei loro alleati (noi europei) si contano in decine di migliaia. In un solo ventennio sono stati spazzati via tutti valori che facevano dell’Occidente un sistema politico e sociale invidiabile e desiderato dal resto del mondo.



Dopo il ‘68 che reclamava – anche sbagliando – la rottura dell’asse di potere borghese, cioè quel sistema catto-tradizionalista ed elitista di governo della società, per accedere a una “società aperta”, dispiace che Soros abbia rubato il termine per le sue scorribande mondiali. Ma già i movimenti del ‘77 erano espressione del riflusso verso l’individualismo e dei “gruppettari” che nella violenza cieca trovavano la propria identità, frutto della competizione su suolo europeo tra gli Usa e l’Urss. Ero davvero giovanissimo ma c’ero alla Sapienza di Roma quando vi furono le contestazioni a Luciano Lama, perpetrate da gruppi di individui dell’estremismo di sinistra e di destra. In quell’anno è iniziata la lenta agonia del “progressismo populista” con la democrazia cristiana che prometteva repressione (Cossiga) e il Partito comunista italiano che abbandonò la mediazione sociale (Berlinguer). La deriva italiana è nota a tutti, da “Mani pulite” fino a Berlusconi, Prodi, D’Alema e Renzi.



La deriva utilitarista e individualista – ben rappresentata da ultimo dal vacuo, arrogante e irritante Matteo Renzi – sta risvegliando i fantasmi di quei tempi che, con facce e nomi nuovi, ci riportano all’attualità dello scontro sociale e culturale di allora: un Parlamento già dichiarato illegittimo e un Governo di comparse che impone cambiamenti strutturali a colpi di voti di fiducia. È l’immagine di un regime della peggiore specie, coperto e protetto dalla regia dell’uomo di apparato seduto sul Colle.

Nel resto d’Europa la situazione non è migliore che in Italia. Ad esempio, nel regno del Belgio si è formato un governo di destra che include esponenti fiamminghi dichiaratamente razzisti e violenti (N-VA), peraltro in costante ascesa. Per gli ignavi soggetti che animano le ormai inutili e dannose istituzioni europee tutto va bene, nessuna domanda sulla “democraticità” del governo belga in carica purché rispetti le tabelline anti-sociali imposte dell’austerità. Fortunatamente le forze di sinistra e di estrema sinistra oltre a potenti sindacati dei lavoratori hanno preso la marcia delle piazze per denunciare questa deriva anti-storica. Ma in Francia un gruppo politico-sociale di destra nazionalista, il Fronte nazionale, riceve finanziamenti dalla Russia di Putin e si prospetta come vincitore alle prossime presidenziali del 2016.

In Germania il blocco democristiano (Cdu-Csu) è in sensibile calo (10%) e mentre i socialdemocratici restano al palo depressi dall’incoerenza crescono le forze liberal-nazionaliste (Afd), di estrema sinistra (Linke) e i Verdi. Nel Regno Unito, una forza liberal-nazionalista, con accenti estremistici, l’Ukip, sta travolgendo i laburisti e i conservatori. Nell’Europa dell’Est, dal Baltico alla Romania, si estendono le ombre del radicalismo nazional-autoritario con accenti di acuto destrismo.

In queste condizioni, che sono frutto di 20 anni di neoliberismo economico, sociale e politico imposto dagli americani, l’Europa rischia davvero di cadere nelle trappole culturali del suo passato. Sembra che lo spettro degli anni ‘30 stia aleggiando sulle vite di noi tutti. Non sono le parole dell’etilico Juncker con il suo programmino finanziario piramidale per trovare i famosi (e inutili) 300 miliardi per la crescita (con una misteriosa leva di 15 volte!) o le sue dichiarazioni “sull’ultima opportunità dell’Europa” a spaventare, ma è la realtà dell’inconsistenza politica dell’Europa dell’Ue e nazionale, come ha drammaticamente stigmatizzato papa Francesco. Così non va proprio! È meglio rendersene conto senza aspettare la scadenza di giugno 2015!

Non so se sia una data astrologica, ma nello stesso giugno 2015 si aspetta anche di sapere se e quanto sarà fallito ufficialmente il negoziato con l’Iran. Più che quello israelo-palestinese, con l’Iran si gioca la gestione della frattura mondiale tra il mondo americano e quello degli altri: insieme all’Ucraina, l’Iran è la faglia geopolitica tra Eurasia e Occidente. Intanto, grazie alle insulse politiche americane – disgraziatamente sostenute da una pletora di sciocchi lacchè europei annidati nelle amministrazioni e nei centri di studio -, il Medio Oriente – creazione intellettuale e geografica europea – non esiste più. Al suo posto c’è un caos di macerie, delle strutture statuali e sociali ma anche economiche e strutturali, che dalla Libia all’Afghanistan accerchia l’Europa sul fronte Sud e Sudorientale.

Al posto del costrutto europeo chiamato Medio Oriente si estende il Califfato, lo Stato Islamico, cioè quell’aspirazione alla nazione arabo-islamica che gli europei (Francia e Inghilterra) preclusero nel 1916 con il patto segreto Sykes-Picot. Anche il neo-ottomanesimo islamico del pio Erdogan è una risposta a quell’umiliante patto. Come in tutte le guerre di costruzione nazionale – e in Europa lo ricordiamo bene dal XVI secolo ai vari risorgimenti del XIX secolo – è la forza e la violenza ispirata da nuovi principi che segnano la storia e gli eventi. Non a caso, anche il democratico e occidentalista Israele ha dichiarato di essere la “patria degli ebrei” (Netanyau), escludendo quindi gli arabo-israeliani.

Il richiamo della storia e la profondità del desiderio identitario è tale che il Califfato riesce a coinvolgere tra i suoi ranghi soggetti nati e cresciuti in Occidente. Peraltro, c’è da ricordare che se questi soggetti, spesso di classe media e con buon livello educativo, scelgono il Califfo lo si deve ancora una volta alle assurde politiche americane che con il semplicismo che li contraddistingue hanno “diviso gli arabi buoni da quelli cattivi”, addirittura facilitando il reclutamento di queste persone per combattere Assad in Siria.

L’ossessione unipolare americana per il “cambio di regime” – che dai tempi di Reagan non si fa più ufficialmente, ma attraverso operazioni coperte o tramite insidiose Ong – ha portato a un Egitto traumatizzato e militarizzato da un Al-Sisi che ora scopre che il Sinai è in mano al Califfo e che per isolarlo immagina improbabili “canali d’acqua”. Tra il 2010 e il 2014 il risultato di queste stupidaggini ideologiche americane hanno portato a un Califfato sunnita reale che si estende dalla Libia all’Afghanistan (e forse al Pakistan), coinvolgendo anche la penisola arabica e alcuni paesi dell’Africa. D’altra parte, l’asse sciita lega l’Iran con la Siria di Assad e porzioni del Libano, oltre a beneficiare di sostegno delle popolazioni sciite nella penisola arabica. Questa è la realtà, il resto è retorica e propaganda americana.

Credere nell’esistenza di una politica estera e di sicurezza europea è più difficile che credere nell’Araba Fenice. Quindi, a questo punto, è un compito nazionale, nel caso specifico dell’Italia con il sostegno della Santa Sede, avviare una politica estera che trovi il nesso politico tra la situazione reale e gli interessi di ciascuno. Per fare questo, e l’Italia ne ha ancora le capacità, non serve più un pupazzo pubblicitario che vive di slogan sconnessi e irrealistici.