Più che un voto per i Repubblicani è un voto contro Obama: così si potrebbe sintetizzare l’esito delle elezioni di metà mandato (mid-term elections) negli Stati Uniti che l’altro giorno hanno dato ai Repubblicani la maggioranza in entrambe le Camere del Congresso, il Parlamento degli Usa. Benché infatti i Repubblicani si fossero presentati agli elettori con programmi abbastanza generici e benché non abbiano attualmente un leader nazionale indiscusso e ben visibile, l’ormai scarsa popolarità di Barack Obama ha fatto (a sue spese) il miracolo. Sia ben chiaro: in quanto primo presidente afro-americano Obama sul piano antropologico è una storica novità, ma sul piano politico è una replica. E non di Bill Clinton, come avrebbe voluto, bensì di Jimmy Carter. A sua parziale giustificazione c’è il peso delle circostanze: a lui è capitato di governare la super-potenza mondiale nella fase non più aurea ma ormai quantomeno argentea della sua egemonia planetaria.
La macchina militare americana (in sostanza aero-navale) continua ad essere senza rivali al mondo, ma ciononostante non è più in grado di stare con la medesima forza dappertutto. Obama ha perciò deciso di concentrarla nel Pacifico cominciando cautamente a sguarnire il Mediterraneo e l’Oceano Indiano. In queste due aree gli Usa avrebbero dovuto limitarsi a dare supporto logistico e di telecomunicazione agli alleati. La cosa però non sta funzionando sia perché non ci sono alleati degli Usa, a partire dall’Europa, così armati da potersi adeguatamente sostituire a loro, e sia perché gli squilibri e gli sconquassi che Washington ha provocato con i suoi forti ma maldestri interventi in Afghanistan, in Iraq e altrove non sono così facilmente rimediabili. In questo quadro il cambio della guardia tra Usa e Unione Europea non solo dovrebbe essere adeguatamente concordato e sincronizzato, ma soprattutto implicherebbe un’Unione Europea con una solidità e una capacità politica che oggi è ben lungi dall’avere.
Fatto sta che la maggioranza della gente in America ha l’impressione che Obama non sappia bene come muoversi in sede internazionale e finisca per provocare tensioni fini a se stesse che diventano il brodo di coltura del terrorismo islamista, proprio il nemico che gli Usa non sanno bene come combattere. Per strano che ciò possa sembrare, il proverbiale uomo della strada è negli Stati Uniti ben poco consapevole di quanto il suo benessere dipenda dal ruolo imperiale che il suo Paese ricopre dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi. Spesso lo ritiene più un doveroso fardello che un concreto vantaggio. E’ perciò la politica interna di Washington che più richiama l’immediata attenzione degli elettori. E qui il disagio è forte e crescente.
Con Obama l’intervento di Washington in campo sociale è aumentato portando con sé da un lato un aumento della spesa pubblica e dall’altro un’ingerenza del governo centrale in ambiti che competono ai governi degli Stati. E sia l’una cosa che l’altra sono impopolari presso larga parte dell’elettorato. In quanto alla spesa sociale, diversamente che in Europa, negli Stati Uniti non fa parte del comune sentire l’idea dei servizi sociali garantiti a chiunque e comunque. Negli Usa, dove è fortissimo il senso della responsabilità personale, non c’è grande misericordia per chi, avendo potuto pagare imposte o assicurazioni, non le ha pagate. La maggioranza della gente insomma ritiene che la formica faccia bene a non pagare per la cicala, anche se perciò la cicala non passerà l’inverno. Con i suoi esiti non proporzionati ai suoi alti costi l’“Obamacare” è pertanto una causa tutt’altro che secondaria della disfatta del partito del presidente.
Adesso che cosa potrà succedere? Diversamente da quanto accadrebbe in Europa, la poltrona di Obama non è in bilico. Eletto direttamente dal popolo, il presidente Usa è un sovrano a tempo che non dipende dal Parlamento o Congresso, e quindi dalla sua maggioranza. Dato però che sull’entità del prelievo fiscale e sui modi della sua spesa il Parlamento a sua volta è sovrano, i due anni che ci separano dalla fine del mandato di Obama saranno caratterizzati negli Stati Uniti da un “braccio di ferro” continuo tra Presidente e Congresso. Il primo dovrà scendere a compromessi col secondo, pena in caso contrario la paralisi del governo federale per mancanza di risorse. Come la politica di Obama cambierà a causa di questi compromessi?
Negli ultimi mesi i Repubblicani si erano espressi a favore di interventi militari più pesanti nel Nord Iraq e nella aree della Siria sotto il controllo dello Stato islamico, Is, e da sempre sono per una riduzione della spesa sociale del governo federale. Quanto Obama dovrà concedere loro per continuare a governare? Dove cederà di più in politica interna o in politica estera? Per capirlo occorrerà seguire con grande attenzione che cosa fra Campidoglio e Casa Bianca accadrà a Washington nelle prossime settimane.