La commissione Servizi segreti del Senato degli Stati Uniti ha preannunciato la pubblicazione della sintesi in 480 pagine di un rapporto di 6mila conclusivo di un’indagine sui metodi di interrogatorio della Cia negli anni seguiti, durante la presidenza Bush junior, al grande attacco terroristico dell’11 settembre 2001 contro le Torri Gemelle e il Pentagono. 



Dal rapporto risulta che la Cia procedette a “brutali” interrogatori di sospetti membri di Al-Qaeda detenuti nelle carceri segrete di cui dispone sia in territorio americano che all’estero. Le brutalità di cui si parla altro non sono che torture sia psicologiche che fisiche, in quest’ultimo caso effettuate con metodi che non lasciano tracce rilevanti sul corpo dei torturati. Per giunta, si sostiene nel rapporto, le informazioni così ottenute non furono decisive. La Cia sostiene invece che tali informazioni furono determinanti per comprendere che cosa fosse Al-Qaeda, che sono ancora utili e che la aiutarono a “salvare vite umane”. Ammette però che “vennero fatti degli errori” soprattutto nella fase di avvio del “programma” cui si riferisce il rapporto che, con il nome di Rendition, Detention and Interrogation programme, fu in vigore fra il 2002 e il 2007. 



La presidente della commissione, la democratica Dianne Feinstein, ha affermato che ” i detenuti della Cia vennero torturati”, che la vicenda getta una “macchia sulla storia degli Stati Uniti” ma che il non nasconderlo dimostra che “l’America è grande abbastanza per ammettere quando ha torto ed ha abbastanza fiducia in se stessa per imparare dai propri errori”.  Il presidente Obama ha aggiunto che metodi del genere “sono in contraddizione con i valori degli Stati Uniti”.

La questione è entrata nel dibattito politico interno degli Usa e i democratici la brandiscono contro i repubblicani, ma in realtà l’impiego di metodi non coerenti con i “valori degli Stati Uniti” da parte della Cia e di altri organismi analoghi è da lungo tempo una costante della politica di Washington. E lo stesso vale analogamente per tanti altri Paesi. Nel caso degli Usa l’impiego di tali metodi perdura tale e quale da una presidenza all’altra. Lo stesso Obama si guarda bene dal chiudere il campo di prigionia in funzione dentro la base americana di Guantanamo, sotto controllo americano dal 1898 ma de jure in territorio cubano: un campo di prigionia là aperto proprio perché, essendo situato fuori degli Stati Uniti, ivi non valgono, secondo il diritto degli Usa, le garanzie di cui godono coloro che vengono accusati e detenuti in territorio americano.



L’episodio si presta a due ordini di considerazioni. Uno riguarda il lato oscuro dei servizi segreti, dello spionaggio, dei corpi militari speciali e così via, di cui nessun Stato è privo, compresi quelli più democratici e più rigorosamente sensibili al tema dei diritti della persona umana. In questo campo l’unica differenza sono semplicemente le dimensioni, rispettivamente proporzionali alla potenza dei vari Stati. E’ realistico riconoscere che ci sono, che forse sono inevitabili (anche se resta da vedere quanto la loro utilità sia proporzionata al loro costo), e chiedersi se, quanto e come, nei limiti del mondo oscuro in cui si muovono, evitino di calpestare diritti umani fondamentali. La questione è aperta e meriterebbe di venire approfondita.

L’altro ordine di considerazioni riguarda il caso particolare degli Stati Uniti, un Paese che più di ogni altro pretende di operare sulla scena internazionale non per motivi di potenza ma a tutela di grandi valori di libertà e di democrazia. Tale pretesa è frutto di un autoconvincimento così forte da indurre da sempre la politica americana, quando necessario, a una duplicità sorprendente. E’ una storia che comincia agli albori degli Stati Uniti, quando si tratta di far coesistere la schiavitù con il diritto costituzionale di ogni uomo alla ” ricerca della felicità”: un principio peraltro sancito da padri della patria che sono per lo più padroni di schiavi e massacratori di indiani. Si risolve allora il problema con un emendamento in forza del quale chi entra nel territorio americano con un certo status non può cambiarlo. E la schiavitù rientra fra gli status possibili. 

Per strano che ciò possa sembrare a degli europei, questa duplicità è in certo modo in buona fede. Dipende più che altro da un’incapacità profonda di porsi il problema dello scontro tra valori di libertà personale e sociale fortemente sentiti da un lato, e dall’altro l’aggressività oggettiva di un popolo che ha vissuto come propria terra promessa un luogo nient’affatto deserto; e non ha esitato per questo a sterminare chi già vi abitava.