Il terzo Governo Netanyahu è ufficialmente caduto a seguito dello scioglimento della Knesset dopo appena un anno e mezzo. Le crisi politiche non sono una novità a Tel Aviv ma questo sembra decisamente il passaggio più delicato per il leader della destra israeliana e per l’intero sistema politico di quel Paese negli ultimi anni.



La causa formale della caduta dell’esecutivo sono state le dimissioni dei due principali esponenti centristi della coalizione, Tzipi Livni e l’astro nascente Yair Lapid. Ma i malumori verso il premier stavano crescendo in molti ambienti politici, a cominciare dall’ultradestra dello Shas che in più circostanze aveva definito Netanyahu “troppo flessibile e malleabile”.



Al di là delle divisioni partitiche, questa crisi è diversa perché diverse e irripetibili sono le circostanze storiche e politiche di tutto il Medio Oriente. Se un errore è imputabile a Netanyahu è proprio quello di non aver promosso un adeguamento della dinamica politica interna a ciò che sta accadendo nel cortile di casa. Provare a mediare tra i diversi atteggiamenti e interessi è missione oggi praticamente impossibile. 

Lo Shas accusa il premier di non aver rovesciato il tavolo ora che gli Usa hanno ufficializzato il rientro dell’Iran nel consesso delle nazioni. I laburisti, all’opposizione, di non aver fatto alcun passo in avanti nel processo di pace con i palestinesi. I centristi di aver lasciato cadere l’alleanza geopolitica con la Turchia e di aver lasciato quindi Israele in balia dei venti geopolitici che soffiano forti su Siria e Iraq. Ad ogni colpo e ad ogni accusa, Netanyahu ha provato a rispondere con una contromossa, a volte tardiva, altre improvvisata. E comunque ad esclusivo uso e consumo interno.



L’ultimo atto è stato la controversa approvazione di una risoluzione che sovrappone in maniera identitaria Israele allo “Stato ebraico”, una Nazione a un solo popolo. Una mossa che cercava di mettere in sicurezza l’appoggio dello Shas, che francamente non si è strappato le vesti dopo la caduta del Governo.

Netanyahu dovrà adesso affrontare le primarie del Likud, nelle prossime settimane, e quindi  il voto di metà marzo, il cui esito appare tutt’altro che scontato. La sua popolarità è bassa e una coalizione tra i laburisti e i centristi, secondo i sondaggi, potrebbe superare la destra di qualche seggio alla Knesset.

Ma siamo sicuri che quella coalizione avrebbe maggior presa e maggior durata del Governo uscente? O non sarebbe forse nell’interesse di Israele stesso promuovere una larga coalizione di forze responsabili in grado di fissare alcuni punti per rilanciare l’economia del Paese – in forte crisi, anche se con prospettive positive viste ad esempio le recenti scoperte di gas naturale al largo delle sue coste – ma soprattutto per definire il futuro di Israele in un Medio Oriente che sta cambiando profondamente e rapidamente?

In tutta l’area stiamo assistendo alla scomposizione geografica e politica che ci lascerà, tra diversi anni, una cartina completamente stravolta. Qual è il futuro di Israele in questo scenario? Cosa o chi prenderà il posto di una Siria che non esisterà più, di un Iraq forse frazionato in tre Stati, di un Iran che torna ad essere un pivot geopolitico? E soprattutto, non è adesso il momento di fare un passo in avanti deciso sulla strada del riconoscimento di uno Stato palestinese?

Immaginiamo che i cittadini di Israele stiano cercando risposte a queste domande. Domande talmente complesse da richiedere uno sforzo di unità e convergenza. Vedremo a marzo se sarà così.