Non piace ai libanesi l’autoproclamatosi califfo: il Paese è in agitazione per questioni politiche e di sicurezza, dati i confini porosi con la vicina Siria, che costituisce una ferita sanguinante. Eppure il Libano ce la può fare a superare questo ennesimo terremoto secondo Ibrahim Shamseddine, presidente della Imam Shamsuddin Foundation for Dialogue (Beirut), che ha fiducia nel senso di responsabilità dei suoi concittadini.
Come la presenza di Isis influenza la politica interna del suo Paese? Il governo libanese ha assunto misure particolari per arginare il pericolo Califfato?
La situazione critica in Libano non dipende dal Califfato. Personalmente non lo temo neppure. Il Libano è in subbuglio per ragioni essenzialmente politiche e di sicurezza che dipendono dalla crisi siriana. La Siria è una ferita aperta. I confini sono porte aperte. Le persone, i militanti in particolare, fanno la spola tra i due Paesi. Il Libano sta vivendo una scossa di assestamento. Credo comunque che il governo, pur in assenza di un presidente della Repubblica eletto, abbia le capacità per gestire una situazione molto delicata e seria. Tutti in Libano sono responsabili e devono impegnarsi per far sì che la situazione non sfugga di mano.
Secondo al-‘Arabiyya in Libano è molto diffusa l’idea che, non fosse per Hezbollah, il califfo sarebbe già entrato nel Paese dei Cedri. Lei che ne pensa?
Prima di tutto, noi non riconosciamo il califfo. La sola definizione di “califfo” è un’offesa. Chiunque può alzarsi e dire di essere il califfo, l’imam al-Mahdi o il Re, ma questo non significa che dobbiamo dargli credito. Perciò non posso parlare di califfo, nemmeno nell’accezione giornalistica. In ogni caso ritengo che il coinvolgimento di Hezbollah nella crisi siriana abbia creato problemi in Libano. Infatti se non si fosse intromesso nella questione siriana, ora la questione securitaria del Libano sarebbe più semplice. In un campo di battaglia aperto nessuno può impedire ai militanti di venire in Libano, neppure Hezbollah.
Come vivono gli sciiti del Libano il pericolo jihadismo?
Vorrei prima fare una precisazione terminologica. Il jihad è una nozione islamica degna di considerazione, ma quasi tutti ne hanno abusato. Uccidere non è jihadismo. Uccidere musulmani, cristiani, uccidere persone di altre religioni, siano esse gente del Libro o non, come gli yazidi, non è jihad, è contro l’islam. È omicidio puro, una carneficina umana. Portare la barba lunga e dire “Allahu akbar” non fa di un killer un fedele musulmano né un profeta e neppure un jihadista. La fede e l’islam non si fondano sul coltello.
Crede che la frattura sciiti-sunniti sia una chiave di lettura adeguata per capire quanto sta succedendo in Medio Oriente?
Il problema tra il sunnismo e lo sciismo non è esattamente di ordine religioso, è politico. Sono due scuole di pensiero islamiche e, pur nella diversità di vedute, nessuna delle due ha ragioni tali da spingerla ad andare a un confronto violento con la controparte. La violenza è dovuta a ragioni politiche. Alcune realtà mediorientali, come l’Iran, cercano di sfruttare il loro potere per diventare la prima potenza della regione. Mirano a rimodellare l’identità di ogni persona, di ogni gruppo in Libano, una manipolazione che non è libanese. Nel variegato panorama delle identità, musulmana, sciita, sunnita, hanno cercato di mettere un gruppo contro l’altro. È l’industria della paura.
Nel suo viaggio in Turchia il Papa ha invitato i leader religiosi a condannare esplicitamente il terrorismo. Quale può essere il ruolo dei leader musulmani in questo senso? Come giudica la loro risposta alla minaccia di Daesh (acronimo arabo di Isis, ndr)?
Le persone si identificano innanzitutto col primo livello della loro identità: la loro nazionalità. In Italia, per esempio, i musulmani italiani sono degli italiani, in Libano un cristiano libanese è un libanese e in Iraq un cristiano iracheno è un iracheno. Perciò spetta allo Stato e al governo proteggere i cittadini al di là della loro affiliazione etnica e religiosa. Essere un seguace di una fede o di un’altra non pregiudica il grado di cittadinanza di una persona e non solleva il governo dall’obbligo di garantire protezione. Ma chi s’intende quando si parla di “leader musulmani”? S’intendono i leader politici o religiosi? I leader religiosi possono parlare, e credo stiano parlando. Il problema è che le milizie non prestano loro ascolto, altrimenti tutto questo non sarebbe accaduto. Quanto sta avvenendo è il risultato del fallimento dei governi nazionali locali, della corruzione dei governi, dell’assenza di libertà. Le persone sono molto disilluse. Non credo perciò che i discorsi dei leader religiosi possano veramente incidere sulle persone che si sono già convertite e hanno scelto la via della violenza e delle uccisioni. Spetta agli Stati intervenire.
(Chiara Pellegrino)
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L’intervista è contenuta nella newsletter della Fondazione Internazionale Oasis che viene diffusa oggi. www.oasiscenter.eu/it