NEW YORK — Era dal 3 gennaio del ’61 che Stati Uniti e Cuba non si parlavano. Immagino che una larga maggioranza di quelli che stanno sfogliando questo giornale virtuale non fossero neanche nati. Batista, Fidel, la Baia dei Porci, i missili… vi dice niente tutto ciò? Non stiamo a fare la storia di Cuba. Diciamo solo che c’era un dittatore con il quale gli americani si trovavano benissimo e facevano affari (d’oro) di tutti i generi, dai sigari ai casinos, alla droga. C’era una grande povertà, una gran sete e fame di giustizia. Ed un uomo, Fidel Castro, in cui — quantomeno secondo lui stesso — questa fame e sete di giustizia si incarnavano. Dall’inizio degli anni 60 il dittatore, Fulgenzio Batista, non c’è più, gli americani neanche. Ma povertà e ingiustizia sono le figlie predilette di mamma Cuba, isola bella, comunista e infelice. L’interruzione dei rapporti e l’embargo hanno strangolato quella specie di economia che Cuba ha sempre tenuto a galla fondamentalmente con la canna da zucchero.



Ma l’altro giorno è successo quello che non ci si aspettava. I due Paesi hanno segretamente raggiunto un accordo che ha portato alla liberazione di Alan Gross, operatore della US Agency for International Development che era stato arrestato cinque anni fa con l’accusa di aver illegalmente introdotto nell’isola macchinari ed altre cose. Cose che, by the way, erano state portate lì “a fin di bene”. Ma da sempre la politica internazionale non è mai apparsa molto interessata a detto “fin di bene”. Metà America festeggia, metà — come sempre — si straccia le vesti. Io, cresciuto a suon di blues (americano) e canti rivoluzionari (cubani) mi limito a dire che chi non si rallegra è scemo. Non solo è ottuso, bloccato da irragionevoli principi ideologici, è proprio deficiente. “Manca” di quel minimo di intelligenza indispensabile a farci sperare nella forza del dialogo, nella forza di quella dinamica che sintetizzerei così: “Se il nemico lo guardi in faccia ci vedi un uomo come te”.



Guarda caso, c’è di mezzo il Papa. Si è scoperto che da ottobre il Vaticano si è messo in mezzo. Obama l’ha detto a chiare lettere nel suo messaggio televisivo: “Voglio ringraziare Sua Santità Papa Francesco, il cui esempio morale ci mostra che dovremmo lavorare per un mondo che sia quel che dovrebbe essere invece di accettarlo così com’è”. Allora uso il mio preconcetto come apertura di domanda — avrebbe detto don Giussani. O faccio come fanno i genitori quando i loro figli ne sbagliano nove e ne fanno giusta una e partono proprio da quella. Faccio festa per Gross e applaudo Obama. 



Se potessi gli direi “Barack, lo sai che mi piaci poco, ma per una volta hai guardato nella direzione giusta. Coraggio, continua a guardare lì! Chiediti perché un Papa è stato capace di rivoltare cinquant’anni di feroce inimicizia, e visto che ci sei, prova a ricordare quel che hanno fatto anche i papi che hanno preceduto Francesco”. Chissà come si svilupperà questa storia. Chissà se su quelle 90 miglia che separano Key West, The Southernmost point degli Stati Uniti e Cuba si riuscirà finalmente a costruire un ponte.

Pensare che la possibilità di ricucire uno strappo così drammatico sia nata dal tentativo di avere cura di un uomo, un uomo qualsiasi come Gross, deve darci speranza. E questo non può che essere un tempo di speranza. E’ il tempo in cui Dio si è fatto uomo. Impensabile, ancora più impensabile che costruire quel ponte attraverso i Caraibi. A Dio nulla è impossibile, e gli uomini che amano Dio sono strumenti di miracoli.