C’è qualcosa di drammatico, se non di tragico, nella crescente divaricazione fra ciò che conta davvero e ciò di cui giornali e telegiornali soprattutto si occupano. Oggi in sede europea è questo in particolare il caso dei negoziati in corso in vista di un accordo transatlantico di libero scambio Usa-Ue. Non ne parla nessuno benché l’importanza cruciale della posta in gioco sia evidente: gli Stati Uniti e l’Unione Europea rappresentano nel loro insieme circa la metà del prodotto interno lordo e circa un terzo del commercio estero del mondo. Il prospettato accordo si estenderebbe poi quasi automaticamente alle aree di libero scambio cui le due parti rispettivamente già partecipano ossia il North American Free Trade Agreement (Nafta) e l’Associazione europea di libero scambio, Efta.
Nel luglio 2013 la Commissione Europea ha cominciato zitta zitta a trattare con Washington appunto i termini di un “Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti” (Transatlantic Trade and Investment Partnership, Ttip). Obiettivo: integrare i due mercati, ridurre i dazi doganali nonché rimuovere in molti settori le barriere non tariffarie, ossia le differenze in quanto a regolamenti tecnici, procedure di omologazione, norme sanitarie e fitosanitarie. Si creerebbero così le condizioni da un lato per un libero scambio delle merci, e dall’altro per un più facile accesso ai rispettivi mercati finanziario, dei servizi e degli appalti pubblici. I negoziati, che sono rimasti per un certo tempo sospesi, dovrebbero riprendere il prossimo 2 febbraio.
E’ evidente quanto la posta in gioco sia di enorme importanza da un punto di vista non solo economico ma anche politico. Non si fatica a capire che dall’eventuale accordo e dai suoi specifici contenuti dipende molto del benessere e della libertà non solo dei popoli direttamente coinvolti ma del mondo intero. Se da una parte ogni allargamento dei mercati non può in linea di principio che venire visto con favore, dall’altra però, in questo caso, sono numerosi e gravi gli elementi che inducono a una grande cautela.
In primo luogo va considerata la gravitazione “atlantica”, ovvero nordamericana, alla base del progetto. Gli Stati Uniti sono una realtà integrata dal punto di vista sia politico che economico, mentre lo stesso non si può certo dire dell’Unione Europea. Benché dunque quest’ultima costituisca oggi un mercato più ampio e con maggiori prospettive di sviluppo di quello nordamericano, la sua attuale ben minore forza politica la destina nella prospettata area di libero scambio al ruolo più del vagone che della locomotiva. L’Europa di oggi deve invece tenere conto di dove si trova: ovvero là dove l’Occidente s’incontra con l’Asia e con l’Africa, quindi nel principale crocevia della vicenda umana. Non può dunque permettersi, né le conviene voltare le spalle alla Russia, al Mediterraneo e al Levante.
Nemmeno tuttavia può e deve voltare le spalle agli Stati Uniti. Occorre piuttosto che riassuma pienamente il ruolo cui la storia e la geografia la destinano. In tale prospettiva l’Accordo transatlantico che si prospetta diventa accettabile solo nella misura in cui non è minimamente orientato alla costruzione di una fortezza “atlantica”. Se ciò fosse, diventerebbero indirette e remote quelle cruciali relazioni euro-asiatiche e afro-europee che per natura sono dirette e prossime.
Accanto all’urgenza cui abbiamo sin qui accennato ce n’è poi un’altra altrettanto importante. Anzi più importante ancora poiché attiene al tema della libertà. Nel nostro tempo — ricordiamolo ancora una volta — la libertà e la democrazia subiscono la pressione di spinte neo-autoritarie. Queste vengono da una parte da influenti élites intellettuali tese a imporre il nichilismo e il relativismo come pensiero unico, e dall’altra da giganteschi gruppi industriali-finanziari transnazionali tesi ad assumere a proprio vantaggio anche il ruolo di supremi regolatori dei mercati. Le prime sono considerate di “sinistra” e le seconde di “destra”, ma nella sostanza giocano tutte quante nel medesimo senso: ovvero nel senso dell’asservimento e dell’alienazione.
A tale proposito l’esperienza già consolidata della tecnocrazia oggi al potere nell’Unione Europea dimostra che — nella misura in cui sfuggono a un forte controllo democratico — i mercati comuni tendono anche a divenire un grande cavallo di Troia a servizio di quelle spinte neo-autoritarie di cui si diceva. Il principale e tipico grimaldello di tale sviluppo è qualcosa di apparentemente insospettabile: l’abbattimento delle “barriere non tariffarie”. In assenza di controllo politico, e prima ancora di vigilanza culturale e sociale, in nome dell’abbattimento delle barriere non tariffarie si può fare di tutto aggirando competenze, sovranità, legittime specificità culturali, principi di diritto, valori civili condivisi e consolidati. Nel caso particolare del Ttip, si ventila una possibilità illimitata di ricorsi ad arbitrati internazionali in conflitti fra soggetti privati e Stati membri. Ciò è molto pericoloso: per questa via infatti le grandi lobbies e i grandi gruppi industriali-finanziari transnazionali potrebbero trasformarsi in fonti di diritto spurie, ma irrefrenabili nei più diversi campi. Non solo in quello economico ma anche in altri a prima vista lontani dal commercio internazionale: dal diritto di famiglia alla sanità, alla scuola, alla libertà d’impresa, all’ambiente e così via. Ce n’è insomma abbastanza per non lasciare questa faccenda alle sole attenzioni dei proverbiali “addetti ai lavori”.