C’è qualcosa di atavico e di terribilmente primitivo nelle ultime incursioni suicidarie da parte di attivisti islamici in Francia. Entrare in un commissariato di Polizia per accoltellare i poliziotti a Joué-Les-Tours, falciare tredici pedoni a Digione in più riprese, o gettarsi con il proprio camion tra le bancarelle di Natale a Nantes costituiscono altrettante manifestazioni di un disegno tanto criminale quanto straordinariamente abile. Che l’invito all’assalto agli occidentali, comunque e dovunque, venga raccolto da persone con qualche problema psichiatrico, non toglie nulla né alla gravità estrema dei gesti, né alla loro concatenazione oggettiva. 



Usare le derive personali e i vuoti depressivi dei singoli per scagliarli come bombe rudimentali verso un mondo in costante disarmo, vuol dire non solo avvalersi gratuitamente di terroristi a costo zero, pronti ad agire senza collegamenti, senza preparazione, usando la loro stessa automobile o il coltello da cucina. Ma vuol dire anche lanciarli verso le cornici più serene, tra la gente più pacifica, nei momenti di gioia più quieta. Il messaggio è chiaro: la pace non esiste, la guerra è già in corso ed il teatro militare è là dove meno ce lo si aspetta, nel quotidiano ordinario; là dove la serenità è maggiore e il disarmo è totale. Perché basta irretire psicologie deboli e devianti per trasformare il dolore interiore in rabbia infinita, pronta al gesto di odio più radicale ed estremo.



Questo male va certamente riconosciuto, chiamato con il suo nome: girarsi dall’altra parte, minimizzare, ridurlo a demenze isolate è da sciocchi. Fingere poi che il pericolo non ci sia né che esista — come ancora qualcuno si ostina a credere — è la più triste delle illusioni, perché conosce smentite tragiche. Pensare che i continui inviti alla guerra santa, scanditi sui siti internet da filmati con bandiere e parate in armi, non facciano breccia all’interno degli equilibri mentali più precari e dentro i vuoti di senso e di futuro di una generazione di emigrati che non si sono mai integrati, è come minimo imprudente. Sotto quest’aspetto le responsabilità del ministero dell’Interno e dei servizi di intelligence francesi è fuori discussione ed è certamente indispensabile che la soglia di sorveglianza venga alzata.



Resta tuttavia qualcosa di atavico e di primitivo in gesti che, benché isolati, sono nondimeno criminalmente fatali. Non è solo lo scatenarsi dell’odio per l’altro dall’islam, dovunque sia, chiunque sia e qualunque cosa stia facendo. Ma soprattutto è un odio che, nel suo delirio, non tollera, né riesce a sopportare la serenità, le chiacchiere in un caffè, la vita ordinaria nel commissariato di una cittadina di provincia, la letizia dei mercatini di Natale. Non riesce a tollerare un mondo che vive da settant’anni in una pace duramente costruita e costantemente confermata con nuove premesse e nuovi impegni.

È il Male, semplicemente, il Male radicale che non tollera la pace ed il bene che la circonda. Ed ha perfettamente ragione di odiarla, perché questa pace non ha nulla di umano, non ha nulla di naturale, perché in realtà è “troppo umana”. Questa pace è un’eccedenza di umanità, un salto nell’infinitamente buono e nel profondamente bello che l’uomo non può compiere da solo. Da solo non può che coltivare il proprio odio, come si coltiva una lucida follia. 

Questa pace, infatti, è divina. È il dono di un Dio che si è fatto uomo ed è venuto alla luce in una stalla “perché non c’era posto per loro nell’albergo”, dando vita alla scena di pace più densa della storia dell’umanità. La pace che cerchiamo in ogni angolo della vita quotidiana, quella che porta a ricostruire sempre ed a ricominciare, perdonando “fino a settanta volte sette”, questa pace, è un dono di Dio. 

Un Dio che accetta di essere il più debole di tutti è il più potente e radicale dei disarmi. Il Male, il Male radicale, quello che spegne anche la luce della ragione e viaggia solo con il delirio, non tollera la grazia di un Dio che si è donato ed è venuto tra noi, accompagnato dal sorriso di una giovanetta e da quello di un padre che riusciva ad amare e proteggere entrambi solo per aver creduto in un sogno (Matteo, 1,18-25). Un Dio che è venuto senza che ce lo fossimo meritato.