Come vediamo l’Africa noi americani? Se si ascoltano i notiziari, si viene sommersi da scenari di violenza, carestie, dittature e, più recentemente, di epidemie come Ebola. A fronte di queste innumerevoli situazioni di crisi, continuo a incontrare missionari, giovani che stanno facendo là esperienze di studio, medici lì in visita, tutti con il desiderio di tornare in Africa. Sono stati “colpiti” e desiderano prolungare la loro esperienza. E’ chiaro che quell’esperienza ha risvegliato il loro “io” e desiderano questo modo di vivere che non sembra possibile nella loro situazione “nomale”, riconoscono in Africa una vita di relazioni che è vera. Rimango sempre provocato da questo ampio divario tra dinamismo e ottimismo da un lato e guerra e carestia dall’altro.
Potremmo dire che ci sono timori irrazionali che stravolgono la realtà della vita: gli americani sono terrorizzati dall’epidemia di Ebola, ma non sembrano pensare al fatto che l’influenza uccide in media 23mila americani ogni anno. Anche se il concetto popolare di “tenebre” esiste e le prove sono date ogni giorno dai media, si continua a voler prendere il rischio di visitare o andare a lavorare, in questa terra di “latte e miele”.
Durante gli scorsi dieci anni, noi della comunità della parrocchia di San Giovanni Evangelista, qui a Rochester, Minnesota, siamo stati colpiti dalla presenza di don John (Lugala) Lasuba, che ci comunica nel profondo le ragioni degli americani che desiderano scoprire il significato della vita in questa “terra a pezzi”. Don John è cresciuto e vissuto in un Paese, il Sudan, che è rimasto immerso nella guerra e nella violenza per tutta la sua vita. Suo padre e quattro fratelli sono stati assassinati nella sua città natale di Yei quando era un bambino. Dopo essere stato ordinato prete nel 1991, ha lasciato le sue sorelle e i suoi amici per andare a prestare il suo servizio sacerdotale nel “bush”, la boscaglia, dove era sotto attacco ogni giorno, dato che la guerra continuava. Il nemico gli dava la caccia e la sua vita era in costante pericolo, costringendolo a rifugiarsi negli Stati Uniti.
Nella nostra parrocchia c’era già una comunità sudanese ed è stata questa l’occasione che ci ha portato ad ospitare don John e a cominciare il nostro rapporto con lui, e poi a costruire la scuola St. John nella sua città di Yei. La nostra gente è commossa dalla sua presenza, il garbo della semplicità ci attrae e risveglia in noi il desiderio di seguire. Non ha nessun desiderio di vendetta, ma è pieno del richiamo a quell’abbraccio di misericordia che ci permette un futuro pieno di speranza.
Così, alcuni dei nostri parrocchiani sono stati spinti a iniziare a discutere sulla possibilità di costruire una scuola elementare a Yei, nel Sud Sudan. Le sfide incontrate sono notevoli, ma le porte continuano ad aprirsi quando noi affrontiamo la realtà nella sua totalità e ci accorgiamo che Cristo ci sta conducendo ad aiutare i bambini di questa terra di povertà e guerra. Due gruppi sono andati a visitare Yei e sono tornati ancora più convinti del nostro obiettivo. Abbiamo raccolto 700mila dollari e la scuola sta per essere costruita. Avevamo un disperato bisogno di risolvere il problema del personale della scuola e abbiamo ricevuto il dono di alcuni nostri amici di Kampala che ci hanno mostrato la strada.
Un altro segno di essere stati “colpiti” è la risposta di una famiglia di sette persone della nostra parrocchia, che si è impegnata ad andare il prossimo gennaio a Yei per aiutare nella costruzione della scuola. I loro figli hanno un’età che va dai tre ai tredici anni e desiderano sperimentare questo dinamismo e ottimismo che risulta così attraente. Sono ben coscienti di ciò che verrà loro richiesto e delle difficoltà che dovranno affrontare, ma sanno che faranno esperienza di una realtà che li porterà a Cristo e a una umanità più vera.
Le percezioni che ci arrivano dai media sono un fatto e bisogna non essere ingenui, perché il dramma dell’Africa in tante zone è orribile, ma le persone desiderano stare con questa umanità che rivela una modalità vera di accettare ciò che è dato e di scoprire Gesù con un volto che alimenta il cuore nel modo più vivo e vero. Don John ci ha dato un modello con il suo modo di vivere: non ci “predica” con vuote parole o con lunghi ragionamenti, ma è e vive senza paure che stravolgono e ci propone l’avventura di una esperienza che invita gli amici a incontrare Dio nella Carne.