Obama ha ammesso pubblicamente che nella caduta del “muro” tra Usa e Cuba, il suo ruolo è stato decisivo. “L’amore del prossimo applicato al mondo globalizzato di oggi”: così monsignor Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, definisce lo stile di papa Francesco. Ma anche dove il pontefice non è impegnato in prima persona (martedì scorso ha manifestato il desiderio di visitare i cristiani di Erbil, nel Kurdistan iracheno) la  diplomazia vaticana è al lavoro. Come nella questione arabo-israeliana.



Mons. Tomasi, cosa può dirci della risoluzione presentata dalla Giordania con l’appoggio della Lega Araba?
Quella risoluzione propone un negoziato di un anno per un accordo di pace tra Israele e la Palestina e poi il ritiro delle truppe israeliane entro il 2017 dai territori palestinesi occupati. Mi pare un tentativo concreto di arrivare al riconoscimento di due Stati indipendenti secondo quanto previsto già nel 1947. Forse la frustrazione di vent’anni di negoziati bilaterali senza grandi conclusioni e di guerre intermittenti hanno suggerito di portare la questione al Consiglio di Sicurezza, pur lasciando la porta aperta ad emendamenti sul testo della risoluzione proposta.



La sua personale opinione?
Potrebbe essere un’occasione per le Nazioni Unite di affrontare questa spinosa questione con nuova creatività e volontà di rispondere alle urgenze umanitarie e di sicurezza delle persone coinvolte sul terreno, delle famiglie, che devono affrontare la vita quotidiana sapendo che non arriverà un missile improvviso o che la propria abitazione non verrà ridotta a macerie.

Non crede che stiamo assistendo ad una accelerazione nella questione arabo-israeliana? Da che cosa è stata determinata?
Il clima internazionale esprime una dinamica politica favorevole alla creazione di uno Stato palestinese. I parlamenti di vari paesi europei, Francia, Inghilterra, Spagna, Irlanda, Portogallo, Svezia, hanno votato a maggioranza in favore che i loro governi riconoscano lo Stato palestinese, come ha fatto appunto anche il Parlamento europeo il 17 dicembre scorso. Gli Stati Uniti probabilmente metteranno il veto a risoluzioni che impongano delle condizioni precise a Israele. Ma la storia cammina.



Alternative?
L’alternativa ad avere due Stati è di averne uno, un Israele che dovrà confrontarsi con una base demografica diversa, perdere probabilmente la sua accettazione della democrazia e della convivenza dove i diritti di tutte le persone sono rispettati. E’ il rischio per Israele di perdere la sua anima, per così dire. La campagna elettorale in corso in Israele potrebbe già dare delle indicazioni di dove si sta dirigendo il Paese. Per i palestinesi, avere il proprio Stato non è solo una rivincita psicologica, ma la premessa per uno sviluppo economico autonomo e per la propria libertà.

Qual è esattamente il ruolo che sta svolgendo la Santa Sede in questa delicata vicenda? 

La posizione della Santa Sede è stata coerente e in linea con le decisioni della comunità internazionale, sostenendo l’idea di due Stati indipendenti e di un accesso garantito a tutti ai luoghi santi per i cristiani, musulmani ed ebrei a Gerusalemme. Poi il ruolo specifico della diplomazia pontificia è di costruire ponti e rafforzare i legami di fraternità della famiglia umana. A lungo andare, l’interesse di israeliani e palestinesi è di passare dall’ostilità reciproca alla convivenza pacifica nella stessa regione. La strada della riconciliazione non è certo facile, ma mi pare l’unica percorribile per uscire dall’impasse.

Non teme che Israele, trovandosi all’angolo, non abbia alcuna intenzione di sedersi al tavolo della pace?
Le reazioni da Israele sono state finora negative. La giusta preoccupazione della sicurezza che domina la politica israeliana è profondamente radicata nella sua esperienza storica. Occorre esaminare quali siano i mezzi più efficaci per garantirla, se solo la forza militare o anche il mutuo riconoscimento nella comune umanità.

Veniamo al disgelo tra Cuba e Stati Uniti. Tutti hanno riconosciuto il ruolo decisivo svolto da papa Francesco: lei potrebbe circostanziarlo meglio?
Papa Francesco ha agito con molta discrezione e la storia darà eventualmente un resoconto della sua azione diplomatico-pastorale per aprire un dialogo tra Cuba e Stati Uniti. Al di là di quanto riportato nei media, non ho elementi particolari da aggiungere oltre a considerare che si tratta di un cammino lungo nel tempo, cominciato con papa Giovanni XXIII durante la crisi dei missili russi a Cuba, le visite all’isola dei papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Si tratta di un processo di apertura e maturazione che papa Francesco ha portato a compimento con coraggio ed una visione nuova verso le periferie del mondo e della cultura.  

I repubblicani più a destra e i profughi cubani anti-castristi negli Usa si trovano d’accordo nel criticare Obama, dicendo, come ha fatto ad esempio John Boehner, che l’apertura è la “concessione insensata a una dittatura”. Papa Francesco cerca naturalmente di costruire la pace, ma a che prezzo?
La strumentalizzazione politica dell’evento apertura Cuba-Stati Uniti mi pare naturale con l’avvicinarsi della campagna politica per la presidenza americana. L’altro che diventa vero partner nel dialogo, tuttavia, non blocca, ma rafforza, lo sviluppo democratico. L’isolamento sostiene le dittature mentre il dialogo le demolisce. Ho fiducia che questo sia il cammino anche nelle nuove relazioni tra Cuba e Usa.

Come definirebbe l’approccio di Francesco alle questioni internazionali?
L’atteggiamento ispirato da papa Francesco mi pare quello di non trincerarsi dietro steccati ideologici o sociali ma di andare incontro all’altro, stendere la mano dell’amicizia alla persona che cerca senso, comprensione, sopravvivenza. Più che un cambiamento di stile, mi pare la riscoperta del messaggio evangelico dell’amore del prossimo applicato al mondo globalizzato di oggi.

Quando cadono i “muri” si presentano nuovi problemi, quelli del dopo. Che ruolo svolgerà — ammesso che intenda farlo — la Santa Sede nel ristabilirsi delle relazioni tra i due paesi? Qual è la vostra preoccupazione fondamentale da questo punto di vista? 

Come dicevo, la diplomazia vaticana non si pone sul piano di competitività militare od economica. Le alabarde delle guardie svizzere non competono certo con le armi moderne, né vogliono farlo. Questa diplomazia è invece la voce della coscienza, un richiamo alla profonda realtà che tutti assieme costituiamo la famiglia di Dio e che questa realtà precede i confini tra le nazioni. La gestione politica di tale convinzione porta al dialogo e alla fiducia come base dei rapporti tra Stati.

L’anno scorso nel suo primo messaggio per la pace Francesco aveva parlato del desiderio dell’uomo di “un anelito insopprimibile alla fraternità, che sospinge verso la comunione con gli altri, nei quali troviamo non nemici o concorrenti, ma fratelli da accogliere ed abbracciare”. Dove arriva il realismo e dove comincia l’utopismo politico?
Se vogliamo costruire un futuro di pace e solidarietà, l’utopismo cristiano diventa realismo politico. L’esperienza storica della Chiesa, “esperta in umanità”, ce lo dimostra. La sua azione di riconciliazione, pacificazione, impegno per lo sviluppo, valorizzazione dell’intelligenza per l’innovazione, la ricerca costante per la giustizia, la solidarietà con i più deboli, ha trasformato culture e Stati. E’ una presenza nella società che la fermenta e la ispira: occorre il coraggio non solo di crederla, ma di viverla.

(Federico Ferraù)