Il governo israeliano svolta a destra e l’Assemblea nazionale francese risponde riconoscendo lo Stato di Palestina. Il premier Benyamin Netanyahu ha licenziato i ministri centristi Yair Lapid e Tzipi Livni, che avevano criticato il suo operato. Tra marzo e aprile si andrà a elezioni anticipate e quella che si profila è un’alleanza tra Netanyahu e gli ultra-ortodossi. Il parlamento parigino in tutta risposta con 339 sì e 151 no ha votato una mozione che invita il governo Valls a riconoscere lo Stato di Palestina. Abbiamo chiesto un commento a Massimo Campanini, docente di Storia dei paesi islamici nell’Università di Trento.
Professore, che cosa implica lo spostamento a destra del governo israeliano?
Questo spostamento era prevedibile. Netanyahu a un certo punto sembrava incarnare una linea politica oscillante tra aperture e chiusure, mentre ora mostra il suo vero volto. Netanyahu è un uomo di destra che ha sempre cercato di realizzare quella che dal punto di vista del diritto e della democrazia occidentale è un’aberrazione, cioè uno Stato etnico e razziale. Vedendo la possibilità di arrivare a questo obiettivo, il premier ha scelto di allearsi con le forze ortodosse che si stanno sempre più ramificando e prendendo piede nella società israeliana.
Ci vuole spiegare meglio qual è il progetto di Netanyahu?
La visione dello Stato d’Israele come Stato degli ebrei implica che chi non è ebreo in questo Stato è un cittadino di serie B. Si è identificati quindi come cittadini non in quanto membri di una società civile, ma in quanto si fa parte dell’etnia ebraica. E’ una violazione palese di una delle idee portanti della democrazia occidentale. Lo ritengo un fatto estremamente preoccupante, perché rappresenta un’involuzione che gli stessi padri fondatori dello Stato d’Israele non prevedevano. La conseguenza sarà che gli arabi israeliani che vivono all’interno dello Stato d’Israele saranno automaticamente considerati dei cittadini di serie B. Ma questa discriminazione varrà potenzialmente anche per una persona non ebrea di origini europee che viva in Israele.
Qual è il significato della scelta dell’Assemblea nazionale francese di esprimersi a favore dello Stato di Palestina?
Questo voto nasce da un lato dal consueto attivismo francese in Medio Oriente, per cui Parigi ha sempre cercato di conseguire una politica che corrispondesse a una sua affermazione nazionalistica nel quadro internazionale. La presa di posizione dell’Assemblea francese è dall’altra una risposta esplicita alle ultime decisioni di Netanyahu. Per bilanciare questa deriva tutti i Paesi occidentali, inclusa l’Italia, dovrebbero riconoscere la Palestina. La nascita di uno Stato ebraico sulle ceneri dello Stato d’Israele diventa evidentemente un presupposto per disconoscere qualsiasi reale intesa con i palestinesi.
Che cosa si prepara in Israele e Palestina?
Non si prepara assolutamente niente. Ormai i palestinesi sono stati sostanzialmente abbandonati al loro destino, e non c’è più un solo Paese arabo che sia disposto a rischiare una crisi internazionale per i palestinesi. Assad era rimasto l’unico baluardo che li sosteneva, ma la guerra civile nella quale si trova ingolfato fa sì che abbia altro cui pensare. I palestinesi quindi non hanno più nessuna chance reale di vedere riconosciuto un loro autentico Stato. Israele se ne è reso conto e ne ha approfittato per andare nella direzione dello Stato etnico e razziale. Chi ci perde sono i palestinesi, come del resto è sempre avvenuto.
Le recenti tensioni a Gerusalemme sono il segno di una situazione che sta degenerando?
Sì, e ciò non è immune da gravi pericoli. Un governo Netanyahu che sposa le prospettive degli ultra-ortodossi e che quindi è sostenuto da questi ultimi, nel futuro anche immediato non potrà che assumere decisioni più rigide e ciò inevitabilmente scatenerà dei conflitti.
Come vede la posizione degli Stati Uniti nei confronti della questione palestinese?
Anche con Obama, gli Stati Uniti non hanno mai smesso di fare una politica filo-israeliana. Il problema è che per ottenere un vero bilanciamento delle forze in Medio Oriente, l’emarginazione forzata dell’Iran rappresenta un grave errore politico e ciò vale anche nella prospettiva della lotta all’Isis. Spero che le ultime evoluzioni non significhino che gli Stati Uniti si stanno preparando a legittimare una guerra preventiva contro l’Iran, che sarebbe un osso molto più duro dell’Iraq di Saddam Hussein. Qualsiasi sia lo scenario che ci aspetta, è chiaro però che una politica di marginalizzazione di Tehran sarebbe un grave elemento di turbativa all’interno di equilibri precari.
(Pietro Vernizzi)