Dopo una settimana di scambi di accuse e di ricriminazioni da una parte e dall’altra, i negoziati per la pace in Siria noti come “Ginevra 2” si sono conclusi ieri con un nulla di fatto nella città svizzera da cui prendevano nome. 

Eravamo stati purtroppo facili profeti quando, commentandone l’inizio, avevamo  scritto che, salvo miracoli, avrebbero potuto solo fallire. Benché Lakhdar Brahimi, regista dell’incontro a nome del Segretario generale dell’Onu, pretendendo che comunque qualche “base comune” sia emersa durante i colloqui, sia uscito a dire che una nuova sessione dei negoziati è in programma con inizio il 10 febbraio prossimo, non si vede a che cosa potrà servire. Non si andrà comunque da nessuna parte se si continuerà ad esigere che da un lato l’Iran non vi sia ammesso, e dall’altro che la delegazione di Assad sottoscriva l’uscita di scena dello stesso Assad quale parte essenziale di qualsiasi possibile soluzione della crisi. 



Diciamo ancora una volta che il negoziato ha senso soltanto se al tavolo ci sono tutti, e se a tutte le parti in causa non si chiede altro che la tregua dei combattimenti. Qualcuno potrebbe domandarsi se una tregua generale sia possibile anche in un conflitto aggrovigliato e convulso come quello in corso in Siria. Sembra difficile se la si pensa a partire dall’eventuale buona volontà degli armati che si fronteggiano in prima linea, non foss’altro perché questa prima linea è spesso difficile da demarcare. Diventa invece malgrado tutto molto facile se si tiene conto che siamo di fronte a una guerra fatta con armi e con munizioni che nessuno in Siria è in grado di produrre e che quindi vengono tutte dall’estero. 



In particolare nel caso delle munizioni, che truppe poco o nulla addestrate consumano molto rapidamente, per fermare gli scontri basta bloccarne il rifornimento. Se il blocco viene fatto sul serio (il che dipende solo dalla buona volontà o meno dei grandi produttori e fornitori di munizioni, ossia gli Usa, la Russia e l’Unione Europea) in capo a qualche giorno la tregua è garantita. Una volta che le armi tacciono e che ognuno resta fermo dove è, allora può avere senso tornare sulle placide rive del lago di Ginevra a discutere, ovviamente a patto che non si pretenda di ripetere il doppio errore che ha fatto fallire la prima sessione dei negoziati. 



Ora, che dopo due anni di una tale guerra civile non si possa tornare come se niente fosse allo status quo ante è cosa tanto ragionevole quanto ovvia. Altrettanto ragionevole e ovvio è però che alla pace si può tornare in Siria soltanto se da nessuno si pretende che il prezzo della pace sia l’eliminazione sua e lo sterminio dei suoi. 

Ciò fermo restando occorre poi garantire la messa in moto di un processo di ricostruzione economica e sociale del paese che renda la pace non sono umanamente auspicabile ma anche materialmente vantaggiosa. Non bisogna mai dimenticare infatti che in situazioni del genere la guerra diventa anche per molti un modo di vivere. A tutti costoro − che con la pace per così dire perdono il posto − occorre anche offrire concrete alternative, se non si vuole che si oppongano alla pacificazione con quel che resta loro in mano, ossia le armi e gli esplosivi. In particolare di questi ultimi ne bastano pochi per preparare auto-bomba, quante ne bastano per rendere un dopoguerra fragile e instabile per anni. Se si vuole davvero la pace, anche di tutto questo ci si deve occupare quando ci si riunisce a discuterne in grandi e confortevoli alberghi sulle rive del lago di Ginevra.