Continuano, anzi si fanno più gravi, i disordini in Venezuela. Manifestazioni di studenti che occupano pacificamente le strade di Caracas sono state duramente represse dalla polizia mentre lo stesso Presidente Maduro chiama il popolo alle armi per difendere la rivoluzione “pacifica e democratica” che nel corso degli anni ha trasformato un Paese ricchissimo e veramente democratico, dove si alternavano pacificamente governi di diverso colore politico in uno sviluppo invidiabile e una stabilità finanziaria notevole, in una nazione dove ormai l’inflazione è alle stelle e supera il 54%, dove mancano generi di prima necessità e gli ospedali sono ormai al collasso per mancanza di medicinali.
Il Venezuela è al collasso, l’Argentina ci sta arrivando con un Governo che ormai naviga nella confusione totale. Ma è altrettanto chiaro (e la partecipazione di lavoratori statali e aficionados del potere chavista a manifestazioni contrastanti quelle sopra descritte lo conferma) che ormai in questi due paesi la cultura dell’odio instaurata da regimi falsamente nazionali e popolari trionfa dividendo le nazioni in due e minacciando una gravissima escalation di violenza.
È incredibile quanto l’Europa finga di non sapere e non operi interventi seri, ma in questo gioco che è solo all’inizio del suo ultimo sviluppo si rivela la profonda ignoranza culturale del Vecchio Continente nei riguardi di un Sudamerica che viene incredibilmente trattato come fosse il giardino della propria casa. Ed è un errore macroscopico che si perpetra da decenni, tranne poche eccezioni, senza il quale si può ben dire che la crisi economica europea sarebbe di tutt’altra portata. Ma tant’è, continuiamo a sottovalutare le cose, o meglio pensiamo ai mondiali di calcio, senza immischiarci nelle beghe interne di nazioni verso le quali la mentalità non è cambiata poi di tanto da Cristoforo Colombo.
Venezuela e Argentina sono casi ben più che emblematici di veri e propri regimi dittatoriali che non concepiscono nemmeno lontanamente il pensiero differente, anzi lo perseguitano con l’arma dell’eliminazione economica: paesi che ormai hanno statalizzato tutto il possibile “in nome del popolo” inventandosi nemici come multinazionali o fondi bancari di rapina per giustificare provvedimenti assurdi, più consoni a logiche tristemente note negli anni ‘30 e ‘40 del secolo scorso che al giorno d’oggi, in completa antitesi con gli ideali tanto propagandati.
Due nazioni ricchissime, che una politica intelligente trasformerebbe in potenze mondiali al di fuori della crisi attuale, versano in condizioni economiche catastrofiche che nemmeno possono più controllare se non ignorando i fatti e perseguendo i mezzi di informazione che li diffondono. Chiudendoli, come accade in Venezuela, o tentando di impossessarsene come in Argentina, attraverso strane interpretazioni della legge sui media.
Un solo dato serve a svelare la situazione venezuelana: nel 2012 i proventi dell’esportazione di petrolio, di cui è il Paese è uno dei più gradi produttori mondiali, sono stati di 64.000 milioni di dollari, di cui però solo 34.000 arrivati sul territorio nazionale. Il resto si è riversato su vari fondi e società multinazionali con sede in paradisi fiscali gestiti anche da capitali cinesi.
In Argentina le indagini che riguardano l’esportazione di ingenti capitali appartenenti alla famiglia presidenziale da parte di Lazaro Baez, amico di famiglia, scandalo che viene pubblicamente denunciato da mesi ma che il potere kirchnerista ignora, sostituendo i magistrati che se ne occupano o ostacolandoli, stanno per arrivare a un punto cruciale che potrebbe compromettere, se confermato, l’intero apparato di potere attuale. Il giudice federale Sebastian Casanello ha infatti chiesto all’Afip (l’ente fiscale argentino) la documentazione basata su false fatturazioni emesse da Juan Ignacio Suris, narcotrafficante. Perché sta raccogliendo prove che indicherebbero un legame di questo capo di una banda narco con Lazaro Baez; dati che potrebbero sorgere da indizi secondo i quali quest’ultimo abbia commesso infrazioni talmente gravi da “costringerlo” a collaborare con il mondo dei trafficanti di droga.
E qui emerge un fatto che viene denunciato da anni (sempre ignorato dal Governo che solo oggi l’ha riconosciuto): l’Argentina da Paese di transito di droga si è trasformato in produttore ed esportatore. Traffico che ha per base la città di Rosario, il cui porto fluviale è poco controllato dalle autorità. Ormai la scala di delitti che si registrano in questo settore ha subito una escalation “colombiana” ed è arrivata a minacce fatte alla redazione del giornale “El sol” di Mendoza, altra città coinvolta in questa deprecabile attività.
Come abbiamo fatto notare in precedenza, la cultura dell’odio ha diviso questi paesi in due. Da una parte chi appoggia questi poteri perché o obbligato ( gran parte dei cittadini lavorano per conto dello Stato che ha monopolizzato interi settori economici o sono finanziati – quelli delle classi meno abbienti – da contributi “sociali” elargiti in cambio di appoggio politico) o perché apertamente finanziato dai governi che difatti spendono cifre incredibili per mantenere la propria “immagine” coinvolgendo in ciò non solo il mondo mediatico, ma anche quello artistico e intellettuale. Dall’altra gran parte della popolazione che subisce quotidianamente le angherie di questi regimi attraverso non solo l’inflazione e la scarsità di approvvigionamenti, ma anche il peggioramento dei servizi anche basici (ad esempio, l’approvvigionamento elettrico e idrico).
Insomma, l’impossibilità di poter vivere una esistenza degna di questo nome, l’esatto inverso dei proclami martellati dai leader nei loro interminabili discorsi, in cui evocano le figure dei “Libertadores” dell’America Latina facendosene continuatori delle loro nobili cause. Dubito che se avessero la possibilità di resuscitare, i vari San Martin, Belgrano e Bolivar sarebbero d’accordo. Con buona pace anche di un’Europa che fin dai loro tempi ha brillato per l’assenza.