Oggi continuavo a pensare a quanto desidero che in questo luogo ci sia la pace. Ho così tanti pensieri e immagini di bellezza del Sud Sudan e di Juba che mi strazia accettare gli spari di nuovo, di giorno e di notte. Il 5 marzo, la mattina, hanno ripreso. Non ci credevo. Non ci credevamo. Pur sapendo che sarebbe potuto succedere, era ovvio. Dallo stesso punto della città del 15 dicembre, arrivavano spari ed esplosioni. Non smettevano. Di nuovo ho cominciato a tremare. Francesco, che lavora per un’altra ong qui in Sud Sudan, da casa sua, vicino al Jebel, mi racconta che sparano, mi dice che è proprio come quella domenica sera. Solo che è pieno giorno. Poi verso le 11, mattina, un’esplosione più forte e una colonna di fumo nero sempre in direzione Jebel, di nuovo Francesco: i muri della casa tremavano. Hanno sparato un razzo sul deposito di munizioni, dentro c’erano 17 soldati. Tutti morti.



In ufficio lo staff comincia a telefonare, si fanno dire cosa sta succedendo. E’ una questione di stipendi non pagati ai militari. Dunque i conti si regolano con le armi. Semplice. I negoziati ad Addis sono falliti. Nessuno ha accettato le condizioni di nessuno. Si parla dell’intervento di una forza di interposizione formata dalle milizie dei paesi vicini, dell’ East Africa. Improvvisamente smettono di sparare. Di nuovo la pace. Ci dimentichiamo subito di tutto il fumo e il rumore. Piove, piove forte. Finalmente la pioggia è arrivata, ironia della sorte, è arrivata con vento, tuoni e lampi e la notte è più fresca. E inaspettatamente si riesce a dormire.



Girano mail, telefonate, messaggi. Stiamo tutti bene, ma cosa succederà. Mistero. E allora oggi, una giornata senza spari è bellezza. Perché continuo a pensare a quanto è bello qui, senza guerra. Speriamo nel bene, anche se nessuno ci crede.

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