Ue e Usa approvano delle sanzioni (cosmetiche) perché è un atto dovuto per non accettare in silenzio lo stato dei fatti in Ucraina e in Crimea. “Sanzioni mirate” hanno detto i ministri europei, nelle quali nessun politico di livello governativo o uomini d’affari significativi sono stati toccati. Mentre si celebra la farsa sanzionatoria, la società statale Rosneft è salita nel capitale della Pirelli, e l’italiana Saipem ha avviato l’esecuzione con la russa Gazprom del primo troncone del gasdotto South Stream che collega la Russia, via la Crimea, all’Europa. Quanto alle borse e ai mercati finanziari nessuna reazione negativa, anzi dei lievi rialzi. L’oligarca russo Alex Knaster, che controlla il fondo di investimenti Pamplona, e il suo mentore, il plutocrate russo Mikhail Fridman, proprietario della Alfa Bank, e molto vicino a Putin, hanno mantenuto le partecipazioni nella banca italiana Unicredit. Questo non ha spaventato il fondo americano di investimenti BlackRock che ha incrementato la sua quota in Unicredit, diventando il primo azionista con il 5.24% del capitale.
Poiché la saga delle sanzioni è fuffa tanto quanto quella agitata sulla presunta violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina, cerchiamo di capire meglio cosa sta agitando le relazioni tra Usa, Ue e Russia.
La crisi in Ucraina è un intreccio di problemi di autodeterminazione e di diritti di minoranze che si avviluppano sul suo territorio sin dalla caduta degli Imperi nel 1918. Dopo l’occupazione della Germania nazista (1941-1944) è seguita la dolorosa pax sovietica che li aveva soltanto sopiti. Dopo l’indipendenza ucraina nel 1991, l’irresponsabile gestione delle autorità dell’Unione europea, e in particolare di Regno Unito, Polonia, e Germania ha liberato istinti primari, immorali e socialmente pericolosi che si sono radicalizzati fino ad esplodere nella crisi attuale. Dal 1989 al 2000, gli Usa erano molto attivi in Russia e nell’insieme dello spazio ex-sovietico mentre, in realtà, la Federazione Russa è stata geopoliticamente piuttosto debole o neutrale in Ucraina (come anche in Yugoslavia e negli ex paesi membri del Patto di Varsavia). Quando, nel 2000, Vladimir Putin è stato eletto presidente della Federazione Russa, ereditava il paese più vasto del mondo in condizioni economiche e sociali disastrose, a causa degli errori sovietici ma soprattutto delle sconsiderate politiche liberiste di privatizzazione della presidenza di Boris Yelcin, istigate dall’Occidente (particolarmente dagli Usa, dall’Olanda e dal Regno Unito). Dopo meno di un secolo dalla ricostruzione post-zarista iniziata nel 1917, con Putin la Russia ha dovuto faticosamente e dolorosamente recuperare l’ordine interno, l’equilibrio sociale, la dignità nazionale e un ruolo di stabilizzazione del proprio vicinato. Questo è stato possibile grazie anche agli enormi flussi di denaro che le sono pervenuti attraverso il commercio statale delle materie prime e dell’energia (gas e petrolio). In Europa, i principali referenti di questa politica di rinascita russa sul piano industriale sono stati la Germania di Schroeder e l’Italia di Berlusconi. Non va dimenticato che contemporaneamente, sul piano finanziario, la Russia ha potuto beneficiare dell’effetto di leva offerto dalle piazze borsistiche per la gestione dei derivati e del trading energetico, particolarmente nel Regno Unito, in Svizzera, e in Austria. Direttamente o indirettamente, la ricchezza della Russia è stato un volano economico per tutti i paesi europei.
Diversamente dai singoli stati europei, gli Usa, e di conseguenza l’Ue, hanno continuato a mantenere un doppio standard rispetto alla Russia: partenariato strategico e containment. L’Italia, sin dagli incontri promossi da Berlusconi con Putin a Pratica di Mare nel 2001, ha scelto il partenariato strategico, che infatti diede luogo al consiglio Nato-Russia. Oggi, la posizione del governo Renzi e del ministro degli esteri Mogherini non ha sconfessato quella scelta, ma ondeggia nell’ambiguità. Invece, la radicata cultura dei sovietologi dell’amministrazione americana non ha mai abbandonato la cultura della contrapposizione. Nell’era Clinton (1992-2000) l’approccio era quello rapace del ‘vincitore’ che si arrogava il diritto di dare lezioni di economia e democrazia, nel ‘mondo piatto’, per ‘aprire’ la Russia agli interessi delle corporation americane. Operazione piuttosto riuscita, visto che oggi due giganti russi dell’energia, Rosneft e Gazprom, sono partecipati in modo significativo da società americane ed europee. Nell’era di George W. Bush (2001-2009), complice la necessità di avere alleati nella ‘guerra al terrore’, le relazioni con la Russia sono state più equilibrate, nonostante il piano di difesa anti-missilistica che dal 2003 l’amministrazione voleva impiantare in Europa orientale.
Tutto è cambiato nel 2007, in coincidenza del crash finanziario degli Usa. Lo stesso anno, l’amministrazione americana ha voluto negoziare con la Polonia e la Repubblica Ceca l’installazione sul loro territorio di sistemi anti-missile teoricamente diretti contro l’Iran e il Medio Oriente. Nel 2008, le pressioni americane, della Nato e dell’Ue hanno provocato la reazione russa che si è conclusa con la guerra in Georgia per ‘sostenere’ due repubbliche russofone separatiste. Nel settembre 2009, l’amministrazione Obama dichiarò di aver ‘cancellato’ il piano di difesa anti-missile in Europa. Parole e atti conciliatori, che però dovevano fare i conti con i neocon americani, un’area trasversale repubblicana e democratica, che continuavano a vedere nella Russia un nemico. In tutto questo, le grandi menti della politica estera e di sicurezza dell’Ue non hanno mai preso posizione o dichiarato le loro intenzioni. Invece, un ex consigliere per la sicurezza di Carter e poi di Obama, amato dalla sinistra socialdemocratica europea, l’oriundo ebraico polacco Zbigniew Brzezinski aveva pubblicato nel 1998 un libro, “The grand chessboard”, in cui teorizzava la necessità per gli Usa di prendere il controllo dell’Ucraina. Non è casuale, quindi, che le attività di un altro oriundo ebreo, l’ungherese George Soros, attraverso le sue fondazioni miliardarie per la ‘open society’ siano riconoscibili dietro a molti dei movimenti ‘colorati’ e ‘rivoluzionari’ in Ucraina, fino ai nostri giorni. L’anno successivo, il 1999, l’Italia guidata da D’Alema era in prima fila nel bombardamento Nato della Serbia per far nascere un governo autonomo in Kosovo, ancor’oggi riconosciuto solo da qualche paese.
Nell’autunno 2013 la crisi ucraina era ormai matura e pronta, mascherata dietro le legittime richieste di una minoranza di voler accedere ai benefici di libertà e democrazia che l’Ue poteva fornire attraverso un accordo di associazione (prologo dello statuto di membro effettivo). Sugli errori di valutazione e di gestione dell’Ue che agiva insipiente attraverso il proprio programma di partenariato (“Eastern Neighbourhood”, il vicinato orientale) abbiamo già scritto su questo giornale, ma non possiamo che sottolineare che quando si creano aspettative le si devono sostenere fino in fondo. L’Ue “ha messo incinta l’Ucraina, e poi non ha voluto sposarla”, mi ha sussurrato un abile diplomatico occidentale.
Resta il fatto che la comunità internazionale ha sconfessato gli accordi: la Russia ha tentato più volte di evitare la violazione degli accordi internazionali del 1994 sulla denuclearizzazione dell’Ucraina che portarono al suo riconoscimento internazionale garantito da Usa, Russia e Regno Unito, e poi gli accordi firmati dal presidente eletto Viktor Yanukovic il 20 febbraio 2014 con i ministri degli esteri di Germania, Polonia e Regno Unito, per svolgere elezioni e adottare la riforma costituzionale in senso federale e autonomistico. Questi ultimi, non sono mai stati difesi proprio dai ministri europei, e poche ore dopo la loro firma un gruppo di individui armati compiva un colpo di stato a Kiev, abolendo persino il bilinguismo russo-ucraino che era elemento pregnante degli accordi del 1994.
Il referendum che il 16 marzo in Crimea ha visto il 96% dei votanti a favore dell’indipendenza dall’Ucraina, è stato trattato come ‘illegale’ e ‘illegittimo’ dagli Usa e dall’Ue. Sebbene il referendum si sia svolto correttamente secondo gli osservatori internazionali, e sebbene esso non abbia deciso alcuna annessione alla Russia, che invece dovrà essere decisa eventualmente dalla Duma, gli Usa e l’Ue hanno imposto sanzioni alla Russia perché avrebbe “violato il diritto internazionale”. Una posizione difficilmente sostenibile visto ciò che l’Occidente ha fatto con le invasioni militari di guerra in Serbia, Libia, Iraq, Afganistan, solo per citarne alcune. I principi inviolabili dell’inviolabilità delle frontiere, nati con la Pace di Westfalia nel 1648 dopo la guerra di religione europea detta dei “Trent’anni”, e reiterati fino al 1948 nella Carta dell’Onu, hanno perso di effettività sin dalla guerra degli Usa contro il Vietnam alla fine degli anni ’60. Certamente, questi principi sono stati abbandonati da chi oggi li richiama, dopo il bombardamento “umanitario” della Serbia nel 1999, e tutti quelli successivi in omaggio alla ‘guerra al terrore’.
Secondo alcuni analisti, siamo già entrati in una nuova Guerra Fredda, che si spera non diventi calda, che durerà per alcuni anni a venire con danni notevoli per l’Occidente, particolarmente per l’Ue, ma anche per la Russia. Gli Usa, e forse la Cina, ne sarebbero i soli beneficiari indiretti.
Il video editoriale di Giulietto Chiesa è molto chiaro in proposito.
Cerchiamo di capire la logica di questa situazione, le sue conseguenze e come poterne uscire.
La retorica della contrapposizione è tipica in ogni grande crisi di sistema, nazionale o internazionale. La logica della contrapposizione tra il bene e il male supremo ha origini antiche. Il suo corollario è la necessaria prevalenza del bene sul male, con ogni mezzo. Infatti, sin dalle origini, il potere ha soppresso con la forza l’apostasia, la blasfemia, più tardi l’eresia, cioè ogni attentato all’ordine costituito che turbasse la pubblica quiete, l’onore o la giustizia (divina). L’Antico Testamento riteneva il sangue come un segno sacro della vita, un insegnamento necessario in ogni tempo. Tuttavia, in epoca scolastica, nel XIII secolo, alla vigilia della formazione degli regni e degli stati nazione, scriveva il Doctor Angelicus: «Desiderare la vendetta per il male di chi va punito è illecito», ma è lodevole imporre una riparazione «al fine di correggere i vizi e di conservare il bene della giustizia» (Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 158, a. 1, ad 3: Ed. Leon. 10, 273). Lo stesso santo riconosceva che l’amore verso se stessi resta un principio fondamentale della moralità, ed è quindi legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita. Nel caso dei popoli è il principio di autodeterminazione, “reagendo con moderazione”, che è un comportamento moralmente lecito. Infatti, non è necessario che si rinunzi alla legittima difesa per evitare l’uccisione di altri, “poiché un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui” (Summa theologiae, II-II, q. 64, a. 7, c: Ed. Leon. 9, 74).
Questa breve digressione filosofica permette di leggere meglio, al di la della propaganda mediatica, il senso del dialogo diplomatico tra Russia e Usa, che fortunatamente continua con telefonate dirette tra Lavrov e Kerry sia il 15 sia il 16 marzo. Nonostante quanto riferito da quasi tutti i media, l’incontro di 6 ore tra i ministri degli esteri russo e americano a Londra il venerdì 14 marzo, non è stato un fallimento. Leggendo bene le dichiarazioni, poiché le parole hanno un senso al di la della retorica di recriminazione, si capisce che Kerry ha capito le difficoltà della Russia che chiede ‘aiuto’ agli Usa per trovare una soluzione nella gestione di quelle forze ‘tossiche’ che hanno preso il potere a Kiev. A dire il vero, la Russia aveva avanzato in passato la stessa richiesta anche alla Ue che è stata incapace di fare passi utili, mentre già la Germania e l’Italia vi avevano prestato attenzione. Quindi, vista l’incapacità dei servizi europei guidati dalla baronessa Ashton, da Barroso e da Van Rompuy, più preoccupati per la loro stessa sopravvivenza dopo le elezioni europee del 25 maggio prossimo che di trovare una soluzione ragionevole per l’Ucraina, la Russia e gli Usa stanno cercando di trovare una soluzione che accomodi le ‘ragioni di tutti’. Questo spiega la ponderazione della parole usate dai due grandi diplomatici, e il fatto che lo stesso Obama abbia fatto capire che le ‘sanzioni’ sono un atto dovuto, ma fondamentalmente, per ora solo di facciata. Finora, l’Ue esce completamente perdente, inutile direi, ma anche la Germania ha dimostrato i limiti della propria forza diplomatica. L’Italia, invece, con il citato accordo tra Saipem e Gazprom per la costruzione del gasdotto South Stream, ha dato prova di pragmatismo e buon senso.
D’altra parte, le relazioni tra Russia e Usa sono imprescindibili per gestire la difficile situazione in Iran, dove i conservatori radicali stanno insidiando il potere del presidente Rouhani e quindi mettendo in pericolo i negoziati sul nucleare, e gli accordi sulla Siria e il Libano. A conferma di questo impegno americano, sebbene insidiato all’interno dai neocons e dalla lobby personale del premier israeliano Netanyahu, si deve registrare l’intervento diplomatico Usa in Arabia Saudita che ha portato alla destituzione dell’incontrollabile capo dei servizi segreti, principe Bandar. Inoltre, gli Usa sono molto preoccupati dal dumping dei titoli di debito pubblico americano che è già iniziato da parte della Cina (50 miliardi di dollari al mese) e che anche la Russia sta valutando. D’altra parte ben 732 miliardi di dollari di debito russo sono detenuti da banche tedesche e austriache oltre ad altre occidentali. Un default politico di questo debito avrebbe ripercussioni gravissime nella Ue ma anche per gli Usa che stanno facendo di tutto per chiudere l’accordo di partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti. È su queste questioni che si regolano i conti su Ucraina e Crimea, con buona pace delle anime belle che propagano informazioni degne della propaganda.
In conclusione, per ora, si può dire che la crisi è grave, avrà una durata lunga, forse qualche anno, ma che al momento non conviene a nessuno trasformare la situazione in una guerra benché fredda.