La Turchia è sempre più spaccata in due. La vittoria e di fatto la conferma alle elezioni municipali del premier Erdogan hanno fatto salire ulteriormente la tensione in un Paese sempre più diviso. Il Premier, dopo le intercettazioni che lo hanno messo in forte difficoltà, ha ricevuto una nuova spinta a continuare dal voto popolare. Non è la prima volta che questo succede e in parte dipende anche dall’incapacità dell’opposizione di organizzarsi. Il Primo Ministro aveva trasformato le elezioni nelle principali città della Turchia in un referendum personale: o con lui o contro di lui. E così di fatto è stato.



La capacità di Erdogan di sapere condurre l’agenda elettorale ricorda quella di pochi altri leader occidentali, ma di fatto ha portato la Turchia sull’orlo di una “guerra tra fazioni”. E gli annunci dopo la vittoria di fatto hanno invelenito il clima. Erdogan ha infatti affermato che “pagheranno caro” tutti quelli che hanno tramato contro di lui.



Se la vittoria è indubbiamente democratica da parte del premier turco, le ultime vicende stanno portando la Turchia sempre più verso un abisso dal quale non sarà facile uscire. Lo scontro non è più solo tra il vittorioso Akp, il partito islamico moderato guidato da Erdogan e l’opposizione. Non è più solo uno scontro tra la parte più modernista e occidentale della Turchia e quella più tradizionalista che Erdogan riesce ben a rappresentare. È uno scontro profondo tra organi dello Stato, visti anche le ultime centinaia spostamenti di giudici e procuratori voluti da Erdogan in seguito allo scoppio dello scandalo corruzione di dicembre.



Il problema odierno all’interno della stessa parte tradizionalista turca è lo scontro, non più sotterraneo, tra il leader “spirituale” Gulen, esiliato in America negli anni Novanta, e lo stesso Erdogan. L’accordo tra i due, un decennio orsono, aveva di fatto permesso la crescita e la stabilizzazione del partito di Erdogan al potere. Un potere mantenuto saldamente tra le mani del leader turco che lentamente aveva messo nell’angolo sempre più i militari, che nel corso del Novecento erano stati l’ago della bilancia (visti i numerosi colpi di Stato). Gulen di fatto era riuscito a unificare la società turca tramite un potere sotterraneo, mentre Erdogan era la “faccia” più presentabile di questo potere tradizionalista.

L’Europa non si è mai opposta a questo cambiamento, che metteva all’angolo i militari, senza accorgersi degli effetti collaterali di questa evoluzione e di questo patto. I problemi sono venuti “al pettine” nel momento in cui si è rotto questo accordo. Le proteste di Gezi Park sono stati i segni di insofferenza di un Paese che non vuole accettare le limitazioni delle libertà personali. Nel momento in cui una parte della magistratura e della polizia (in quota a Gulen) sono andati allo scontro diretto con il premier Erdogan, la reazione di quest’ultimo è stata nervosa e ben poco democratica.

Non solo gli spostamenti obbligatori per le persone delle istituzioni in odore di tramare contro di lui, ma una reazione dura e forte contro la libertà di stampa. Il blocco di Twitter e di Youtube poco prima delle elezioni municipali rappresenta solo l’ultimo indizio, ma è anche un ulteriore passaggio dell’incapacità di Erdogan di rispondere democraticamente alle problematiche interne.

Erdogan è sulla stessa barca di Gulen, il quale sembra avere tolto il tappo alla barca che ora affonda.

Il premier fa di tutto per non affondare e anche grazie al proprio carisma riesce a ricevere un forte sostegno popolare. In questo scontro chi ci perde è la Turchia, sempre più divisa e sempre meno democratica. E le affermazioni di Erdogan che “vuole farla pagare a tutti quelli allineati con lui” non sono solo un avvertimento, ma una triste pagina della democrazia turca.