Bisogna dare atto al sussidiario di avere saputo dare spazio a punti di vista anche molto diversi, aprendo un dibattito reale, oggi più che mai carente, al tempo dell’informazione a senso unico. Di questa apertura approfitto per marcare un certo sconcerto alla lettura dell’ultimo articolo di Robi Ronza, dedicato alla crisi ucraina e dal titolo più che mai emblematico: “La soluzione passa per Varsavia”.
Non credo affatto che la soluzione passi per la Polonia, a meno che non si intenda che passi “anche” per la Polonia, con una forte relativizzazione di quella che è la tesi centrale dell’analisi, ancora una volta legata – tesi non nuova per questo giornale – all’idea di un’egemonia tedesca sull’attuale Unione Europea, che ne pregiudicherebbe la capacità di intervento e la natura “solidale”. È la stessa tesi che, da mesi, va ripetendo un altro ottimo collaboratore, Mauro Bottarelli, per la questione della crisi finanziaria europea. Andiamo, però, con ordine.
Le premesse dell’intervento di Robi Ronza sono condivisibili, quando traccia una sorta di fenomenologia della crisi ucraina, a partire dalle sue ragioni storiche e culturali. Ronza ha anche ragione quando afferma che, di fronte alla crisi, servirebbe più Europa, ma, giustamente, si trova, poi, a dover fare i conti con le divisioni interne alla Ue. Tuttavia, proprio questi riferimenti di ordine storico dovrebbero aiutare a valutare con più prudenza il ruolo che egli attribuisce alla Polonia che è, forse, tra tutti gli attori europei, il meno indicato a mediare tra le due componenti fondamentali della realtà ucraina: quella occidentale, prevalentemente cristiano-uniata od ortodossa, e quella orientale, prevalentemente ortodossa e russofila.
Non chi scrive, ma una fonte autorevole come il card. Kasper, per anni responsabile del dialogo interconfessionale, nella sua autobiografia ha sottolineato come passi avanti reali nel dialogo con la Chiesa ortodossa furono fatti solo quando Benedetto XVI (tedesco) successe a Giovanni Paolo II (polacco), e non per cattiva volontà di quest’ultimo che, anzi, per tutto il suo pontificato perseguì con energia proprio il disegno di un’unità ecumenica che corrispondesse pienamente alla sua idea di un’Europa con due polmoni. Si trattava, sostanzialmente, di una diffidenza secolare rispetto al cattolicesimo polacco, percepito, anche nella parte cattolico-orientale dell’Ucraina, come “colonizzatore” (nei confronti di una consolidata tradizione canonica e liturgica non latina) e in quella ortodossa, come quinta colonna del proselitismo di Roma. L’elemento religioso, come spesso accade in Europa orientale, è qui in stretta connessione con quello politico-nazionale, anche dopo sessant’anni di ateismo ufficiale di Stato.
D’altra parte, oggi in Polonia ci sono parti politiche e persino libri di testo scolastici dove si pretende che città come Vilnius (Lituania) e Leopoli/Lwow (Ucraina Occidentale) siano culturalmente polacche, parti, cioè, di una Grande Polonia, sacrificata dallo strapotere degli imperialismi dei secoli XIX e XX.
C’è molto di vero in questo (per inciso i tedeschi potrebbero dire la stessa cosa di Breslavia o di Stettino, ma si guardano bene dal farlo), ma la cosa non può certo ben disporre gli ucraini occidentali che, infatti, sono non poco diffidenti circa il ruolo di Varsavia. Sappiamo quanto queste situazioni siano frutto delle tragedie della storia e delle ideologie totalitarie, ma proprio questo dovrebbe indurre a maggiore prudenza. A complicare le cose ci sono un paio di recenti decisioni dei governi succedutisi alla guida della Polonia, come quella di permettere alla Nato di schierare dei missili strategici al confine orientale del Paese, che, oltre che irritare inutilmente Mosca, sono, forse, il segno di una certa ingenuità nazionalistica, purtroppo ricorrente nella storia di questa grande nazione.
Il punto dolente, peraltro, sta nell’affermazione di Ronza, secondo cui l’attuale Ue è «in sostanza nella mani della Germania» e, proprio per questo, è inadatta a gestire la crisi. Ciò è parzialmente vero, nel senso la Germania sta facendo il più possibile i propri interessi economico-finanziari, come fa e farebbe qualunque Stato, sia pure a sovranità limitata, quale è la Germania e quale è anche l’Italia. Il punto di forza della Germania, in una partita europea che è eterodiretta da forze transnazionali che fanno riferimento più a New York e a Londra che a Berlino, è che la Germania sa almeno quali sono i propri interessi economico-finanziari. L’Italia, invece, è spaccata tra interessi diversi e divergenti: quelli della realtà economico-industriale delle regioni del Nord, quella della casta parassitaria che si identifica con la Capitale e quelle di un certo, innegabile, parassitismo del Sud. Ogni partita giocata dall’Italia non può che scontentare qualcuno, mentre, di certo, non si può accusare la Germania di avere una burocrazia e un sistema fiscale ancora funzionanti e, soprattutto, funzionali alla propria crescita.
Non è nemmeno colpa della Germania se l’Italia ha una casta di boiardi strapagati e inutili, il cui unico obiettivo politico è il mantenimento del proprio status. Non è qualunquismo ricordare che l’ambasciatore italiano a Berlino è più pagato della cancelliera Merkel o che i costi della politica italiana sono mediamente il doppio di quelli tedeschi. Né si tratta di una divagazione dal tema, dal momento che il sentimento antitedesco, oggi cavalcato in Italia da molte parti politiche, ha tutta l’aria di essere il classico distrattore dai veri problemi di un Paese allo sfascio. È una vecchia strategia, quella di cercare il nemico “esterno”, per non affrontare il nemico interno. È un modo per nascondere il problema. Se l’Italia non è capace di fare le riforme, la colpa non è della Germania. E se l’Italia non fa le riforme è destinata a rimanere debole rispetto a tutto ciò che si muove in Europa e nel mondo.
Quanto alla pretesa di trapiantare il modello solidale (per farci capire quello esistente in Italia tra Nord e Sud), a nessuno piace pagare i debiti altrui, nemmeno ai tedeschi e, se lo potessero, anche i lombardi, i veneti, gli emiliani farebbero a meno di continuare a foraggiare gli sprechi di altre regioni. No, la Germania non sta conquistando l’Europa palmo a palmo, facendo rollare i tassi di interesse, invece che i panzer con la croce uncinata. Neppure se lo volesse, la Germania sarebbe in grado di farlo. Settant’anni di federalismo, ben riuscito, e di denazificazione, a senso unico, vi hanno prodotto una mentalità dominante del tutto scevra da disegni egemonici, quanto meno di carattere politico. Il federalismo vi ha insegnato il senso di responsabilità e la preminenza dei temi pratici su quelli ideologici. La denazificazione, partita con la migliore delle intenzioni, vi ha invece prodotto il dominio di una cultura della subalternità, marcata dai temi cari alla sinistra chic, come il multiculturalismo, la rivoluzione sessuale e un certo ambientalismo di maniera.
Pochi paesi in Europa sono così “politicamente corretti” come la Germania, e persino l’esistenza di talune frange radicali, di destra e di sinistra, non fa che confermare il moderatismo di questa linea di forza, pienamente condivisa da tutti i partiti di governo che si sono, sinora, alternati alla sua guida dalla fine della seconda guerra mondiale.
La Germania non può “culturalmente” esercitare alcuna egemonia politica proprio in forza di questo a-priori o, per dirla con la felice espressione di Thorstern Hinz, della «psicologia della disfatta» che la domina.
Se oggi in Germania si moltiplicano le voci critiche nei confronti del modello Euro non è per improbabili disegni di conquista, ma per due concretissimi ordini di ragioni. La prima, facilmente comprensibile, sta nel tentativo di tutelare il proprio benessere e, certamente, anche i propri interessi, come fa chiunque sotto il sole. La seconda, espressa con la civiltà dei ricorsi alle debite sedi giudiziarie a tutela della propria sovranità nazionale, sta nel timore di perdere quella libertà e quella sovranità che il Paese ha conosciuto dopo la fine della dittatura nazionalsocialista e, in alcune sue parti, solo dopo il crollo del comunismo.
Anche ai tedeschi non piace affatto un’Unione europea che assomiglia sempre più all’Unione sovietica. Paradossalmente, e lo scrivo un po’ come una provocazione, l’Europa di oggi ha bisogno di più, non di meno, Germania, ma di una Germania consapevole del proprio ruolo storico e spirituale, cosa che, ahimè, è molto lontana dalla realtà attuale. O, per dirla con un altro paradosso, che varrà la pena di chiarire in altro momento, ci vorrebbe una Berlino più capace di essere quello che è stata la Vienna della Mitteleuropa.