Lunedì mattina, fine marzo. Mi sveglio. Una nuvola oltre il tetto della casa di fronte – sembra siano davvero arrivate le piogge. Mi chiedo: cosa c’entra? cosa c’entra quello che non è qui, chi non è qui, immediatamente a portata di mano e di sguardo? 

Hanno scritto, la settimana scorsa, che i negoziati ad Addis sono ricominciati, alla ricerca di una tregua. Ai meeting chi torna dai posti distrutti urla richieste di intervento. Ma sembrano parole al vento. Bene, mi dico, c’è da fare. Ma come si fa?



Giorgio, rappresentante di un’altra Ong, racconta che loro non riescono a mandare il materiale per i progetti che hanno ad Ayod, a nord di Bor, Jonglei. Ci sono stati, ma due giorni dopo l’esercito bloccava il passaggio. “Siamo in zona ribelle”, “Sono tutti Nuer”. “Dobbiamo provare a cercare luoghi più pacifici, là non si riesce”. L’inaccessibilità, l’impossibilità dei movimenti, gli ostacoli geografici sono concetti che non fanno parte di noi. Talmente tanta pioggia e fango che la strada non la puoi usare. Non c’è verso. Aspetti. Va messa da parte l’idea di riuscire a fare quello che avevi programmato. I limiti, qui, sono talmente evidenti che sono i protagonisti di questa storia.



Allarmismi: arrivano le piogge, un milione di sfollati, 3 milioni di persone a rischio. Posti inarrivabili. Luoghi remoti. Ma se ti fermi a pensare, lo sai che questa è gente nomade, gente abituata a spostarsi, gente abituata. Nulla di sconvolgente. La normalità della povertà. Della precarietà, dei mercati vuoti di cibo. Eppure domenica a Messa hanno detto: “Noi, il popolo del referendum per l’indipendenza, il popolo della libertà, abbiamo distrutto le tre città (Bor, Malakal, Bentiu) in tre settimane. Dove andremo?”. In apparente pace, continuano i controlli nelle case. Hanno preso le armi. Non sappiamo dove le portano. Finchè non succede, si tratta di attesa.



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