Stamattina sono stata in una prigione qui dietro al compound di Fondazione AVSI, su Malakia road. Cercavo Matthew, uno dei ragazzi locali che collabora con AVSI: una ventina di anni, alto, magro, bello. Un sorriso da ragazzino. Lo hanno fermato sulla strada per Torit, quasi una settimana fa, perché non aveva ancora pagato la dote alla famiglia di sua moglie. Suo fratello mi ha raccontato che era finito in ospedale perché delirava, aveva le allucinazioni. Dall’ospedale è scappato e lo hanno messo in prigione, per proteggerlo dall’ira di suo suocero. Così sono andata alla prigione di Malakia road, qui dietro dove noi di AVSI abitiamo. I poliziotti mi hanno detto che Matthew non era lì, ma sapevo che era traumatizzato e dunque temevo che non rispondesse quando i poliziotti lo chiamavano. Allora ho guardato nelle celle. Non c’era, il fratello mi ha detto che si era sbagliato, che Matthew era in un’altra prigione.



Ci sono andata, con Michael, il nostro logista. Non mi hanno lasciata entrare subito, hanno prima parlato con Michael. E’ una stazione della polizia in mezzo alle capanne, è una capanna di fango e paglia. Dopo un po’ sono entrata: era tutto buio, ci ho messo un po’ ad abituare gli occhi e ho visto Matthew dall’altra parte delle sbarre. Era da solo nella “stanza”. Gli ho preso la mano e mi sono fatta raccontare. Mi ha detto che il fratello ha pagato una parte della dote e che ora stava aspettando che arrivasse con una macchina per portarlo in ospedale. Mi ha detto che doveva fare un’iniezione perché ha il tifo.



Poi è arrivato David, un altro fratello con dei foglietti su cui il medico aveva scritto la diagnosi e le medicine da prendere. C’era scritto “allucinazioni” e poi alcune medicine per i nervi e per la malaria. Matthew sembrava quasi pacificato. Difficile da spiegare, sembrava un bambino. Mi ha fatto vedere le botte che ha preso in testa e un taglio sotto l’occhio. Il taglio se lo è fatto rompendo una recinzione per mettersi al riparo da suo suocero.

Gli ho chiesto se aveva il telefono. Mi ha mostrato le mani e mi ha detto che il telefono era li, “dentro” alle sue mani, alimentato dal sangue delle sue vene. I poliziotti che erano li mi hanno detto “vedi che vaneggia…” e io ho detto “ma no, sta scherzando”, perché sembrava così tranquillo e Matthew mi ha detto che non stava scherzando, che era vero. Il suo telefono era li. “Matthew, queste sono le tue mani…”, dico io. Sembrava perso, sembrava ubriaco senza aver bevuto, sembrava un bambino. Gli ho dato dell’acqua, del succo di frutta e dei dolcetti. Poi volevo stare lì ancora con lui, ma è arrivato un poliziotto che ha detto qualcosa nella loro lingua. Sembrava infastidito e Matthew mi ha detto “puoi andare via”. Ho provato a dire al fratello di prendersi cura di lui. Non so cosa faranno. Vale la pena guardarci ancora.



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