Difficile da capire quello che sta succedendo in queste settimane in Sud Sudan. Difficile capire cosa accadrà. Partire da ciò che abbiamo più vicino è la cosa più semplice e sincera. E’ giovedì 17 aprile e nell’ufficio sud sudanese di Avsi arriva Francesco, amico e collega di un’altra Ong italiana: è stanco e affannato, sta lavorando a un progetto di distribuzione di sementi per gli agricoltori, nello Unity. Lo Unity è uno dei tre stati a nord del Sud Sudan, la regione dei pozzi petroliferi. Uno dei tre stati in cui la guerra c’è per davvero.



Francesco ha il fiatone. Due giorni prima ha messo dei colleghi su un aereo verso il nord, in missione per portare uomini e aiuti. Sono partiti, ma appena arrivati sul posto lo hanno chiamato: vogliamo tornare a Juba, subito, oggi stesso, domani, appena c’è un aereo che rientra nella capitale. Abbiamo paura.

Pensavano si potessero riprendere le attività. Le Ong ora hanno la capacità di muoversi nelle zone dove il conflitto è in atto. Sono le organizzazioni che lavorano con le associazioni locali, con la gente. Perché i sud sudanesi sanno cosa succede e capiscono come è meglio muoversi. Le informazioni passano da lì, come un telefono senza fili. Le notizie ufficiali invece dicono che la zona dello Unity è tranquilla. Certo, si combatte, ma non è impossibile proseguire con le attività. Eppure i sud sudanesi hanno paura, vogliono tornare indietro. Nei tre stati in guerra si combatte e noi siamo impotenti. Anche le grosse organizzazioni lo sono. Hanno i mezzi, ma non sanno prevedere cosa succederà domani.



Io e Francesco pranziamo insieme e a me rimane tutto sullo stomaco. Non è successo nulla, eppure l’insicurezza e la paura ci fa parlare e non mangiare. Strage di civili, si legge in questi giorni. Prima i Dinka, poi i Nuer. Uccisori e uccisi. Si parla di conflitto etnico, me ne hanno parlato per anni i miei professori di antropologia. Ma i docenti, i ricercatori, dicevano anche che l’etnia è una “costruzione”, una categoria facilmente manipolabile. Dunque non bisogna perdere di vista la realtà, che è fatta di petrolio, acqua e risorse naturali. Sulla mappa, dal satellite, il Sud Sudan è verde. Colpisce il contrasto col giallo desertico del Sudan. Una terra appetibile. E di mezzo organizzazioni non governative e Nazioni Unite.



L’UNMISS è l’unica massiccia presenza straniera nelle regioni in guerra. Una missione di pace, che sta costruendo nuove regole per rispondere a un contesto così poco decifrabile, dove è chiaro solo che l’etnia è il contorno. Vendette, e di mezzo le Nazioni Unite. Una pace che passa dalla guerra. Forse bisogna cominciare a crederci. Ma ancora una volta, bisogna guardare attentamente la realtà, mai uguale. Ogni paese è diverso, ogni uomo è diverso. E il passato dei Paesi dell’Africa dell’est non è uguale al presente e al futuro del paese più giovane del mondo. Proprio per questo, occorre guardarne i dettagli, per vederci chiaro. Le UN ospitano chi sta scappando, senza distinzione di etnia. Chi scappa bussa alla loro porta. L’unica nostra forza è il quotidiano. Facendo attenzione all’uomo.

Francesco torna a casa. In ufficio. Prenota un volo di rientro per i suoi colleghi. Non si può fare altro. Si continua piano piano, nella certezza che la nostra posizione va costruita e tenuta giorno per giorno, oltre qualsiasi ideologia o etnia.

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