MOSCA – La società russa ha raggiunto l’unanimità o quasi: alla fine di marzo il Centro russo di ricerche sull’opinione pubblica dava il gradimento del presidente Putin al 75,7% (un record), altri affermano addirittura che solo il 9% della popolazione avversa totalmente la politica del governo.
Si tratta di un dato di fatto eclatante. Questa nuova unità è nata in nome del patriottismo, che si è rivelato all’improvviso il fulcro del sentire comune; la sua forza è il desiderio di appartenere a qualcosa di sovrapersonale e di grande. Ma, nonostante i suoi successi, questa unità non è così monolitica e serena come potrebbe sembrare, non poche sono le polemiche che la accompagnano all’interno della società russa, creandovi una spaccatura profonda che merita riflessioni approfondite e potrebbe essere la via per una nuova crescita e per una più profonda maturazione
La dolorosa lacerazione degli animi riporta innanzitutto alla luce vecchi errori e vecchie ferite mai sanate, esige drammaticamente che si affrontino compiti nuovi: «Sono in corso processi molto complessi, che cambieranno irreversibilmente il mondo e la vita di ognuno di noi… ma nessuno può essere ridotto solo a un’opinione » scrive la psicologa Ljudmila Petranovskaja su facebook. E ancora: «Vecchi amici che rompono i rapporti, genitori che hanno smesso di parlare coi figli, si dice che alcuni addirittura stiano già divorziando. Che follia. È chiaro che sono state toccate delle corde molto profonde e importanti. È chiaro che non è solo uno scontro di opinioni, di visioni del mondo. E tuttavia… Discutete, se avete la voglia e le forze, ma non puntate a convincere seduta stante il vostro interlocutore. … Leggete opinioni diverse, consideratelo un esercizio di tolleranza, una pratica spirituale, in fondo. Tanto ci tocca lo stesso vivere insieme, non possiamo dividere il paese “in base alle posizioni”, abbiamo bisogno di conoscerci e di saperci ascoltare, anche se non siamo d’accordo. Tenete presente che oggi tutti hanno i nervi a fior di pelle, si sentono molto vulnerabili, hanno paura. … Non vi invito a lasciar perdere gli argomenti importanti per parlare del più e del meno: si può e si deve discutere, ma non rompete i rapporti perché non siete della stessa idea. I rapporti sono più importanti delle posizioni e delle opinioni. Finché non ci siamo sparati addosso, finché non è successo l’irrimediabile, finché non siamo arrivati al sangue – e voglia il cielo che non ci si arrivi -, non rompiamo alcun legame prezioso. Stiamo entrando in una fase di fortissima turbolenza in cui nessuna mano amica sarà superflua. …Siamo tutti carnefici e tutti vittime, su questo non ci piove, ma l’importante è che nessuno è soltanto carnefice o soltanto vittima. … Custodite i rapporti».
Anche la gente comune è rimasta smarrita nello scoprire la fragilità dei legami sociali, e partecipa con spavento a questa guerra di logoramento che non porta da nessuna parte. Molti se ne stanno rendendo conto e forse questo senso di frustrazione ha spinto qualcuno a cercare di fare un passo indietro dalla polemica infinita, per riconoscere e consolidare quello che rimane di certo, che neanche la lacerazione di oggi può azzerare; si cerca un terreno più solido che dia la possibilità di continuare a convivere e a guardarsi in faccia.
E già si vedono dei tentativi individuali di non cedere alla logica della rottura ma di far leva sulla persona, sui comuni sentimenti umani; qualcuno cerca consapevolmente di gettare ponti, nella certezza che un’unità diversa è possibile, anzi è quella che veramente cementa la nazione. Nel coro delle requisitorie si distinguono subito queste voci per la diversità di tono, per la misura, perché cercano di farsi carico delle ragioni dell’una e dell’altra parte, come fa Elena Kadyrova: «C’è una verità comune che può unirci… riconoscere il diritto d’esistere ai sentimenti che ciascuno nutre davanti a quel che accade».
Quindi ammettere diritto d’esistenza a tutte le posizioni: al putinismo come all’antiputinismo, poiché ognuno si porta dietro la sua storia, la sua educazione. Ma se la persona non è riducibile alla sua posizione, ora è più necessario compiere un passo personale che non un gesto politico, perché è il modo più efficace per edificare la società; e il principio più personale in assoluto è quello di Cristo, come aveva genialmente intuito oltre sessant’anni fa don Divo Barsotti: «In Cristo, Oriente e Occidente non sono due mondi divisi; rappresentano piuttosto due civiltà, due mentalità distinte, destinate a completarsi nella Chiesa Una. Ma se noi togliamo Cristo a questi due mondi non ci potrà essere alcuna possibilità di unione e d’intesa: Oriente e Occidente rappresentano allora due mondi divisi e destinati a scontrarsi in un urto che elida o l’uno o l’altro e sia, forse, la fine dell’uno o dell’altro. Sembra di far della retorica eppure rimane vero che Cristo soltanto può operare l’unità degli uomini e delle nazioni. Senza di Lui non c’è nulla fra gli uomini che valga a operare la loro unità: nessuna idea, nessun uomo».
Dimenticare «che siamo figli di re» ha generato in tutti la paura, ed è proprio la paura la chiave di volta della crisi attuale. E sulla paura, sulla dignità e la speranza ha riflettuto in questi mesi Svetlana Panič, storica della letteratura, traduttrice e credente, che ha postato quotidianamente su facebook le riflessioni che gli avvenimenti le suggerivano.
4 marzo. Sono sul metro. L’occhio mi cade casualmente sul giornale colorato che legge la mia vicina. Credo sia Express-info, o forse Megapolis-express: alla rubrica «Guerra santa» si racconta che i combattenti del Majdan torturano i genitori sotto gli occhi dei figli, e poi annegano questi ultimi nel Dnepr eccetera. Non riesco a trattenermi: «Scusi, non le fa impressione leggere queste cose così brutte?». «E allora, non dovrei leggere più niente? – taglia corto la vicina (il viso duro, inquieto e stanco) – Bisogna pur sapere la verità». «Ma lei è convinta che sia proprio la verità?». La vicina non risponde. E a un tratto capisco: non è solo che le hanno fatto il «lavaggio del cervello». Una persona certa di essere assolutamente inutile vedrà attorno a sé soltanto mascalzoni. Chi ha perso la speranza (non in qualcosa di concreto, ma la speranza come modo d’essere) crederà soltanto alle cattive notizie e si attaccherà al golem che gli darà un’illusione di sicurezza e di forza. Inutile cercare di convincerla, il punto è un altro: come ridarle la speranza? Mi sembra che non sia il momento di denunciare e di esortare ma piuttosto di fare domande, di ascoltare, discorrere. E non da dietro le nostre linee difensive ma nel mezzo della comune umanità. Anche con chi nega ancora questa comunione e questa umanità. Pure questo è un lavoro, e anche molto rischioso. Cosa ne potrà uscire, Dio solo lo sa.
26 marzo. Basta dire a se stessi: «non mi fanno pena», «peggio per loro», che subito ci si sente in diritto di umiliare gli altri per amore delle nostre nobili idee e dei nostri alti ideali. Magari l’educazione non ci permette di usare questo diritto, ma questo non cancella la «legge» in quanto tale: se «non mi fanno pena» vuol dire che «a noi» tutto è concesso; invece soltanto la compassione è in grado di fermare la mano alzata per infliggere il giusto colpo. La compassione non cancella i conflitti di idee, non si rassegna all’ingiustizia ma ci solleva là dove non ci sono radicali e conservatori, destra e sinistra, simpatizzanti e avversari, e siamo tutti «poveri uomini».
15 aprile. Una caratteristica del linguaggio dell’odio è di essere irrimediabilmente generico. E si capisce, colpire nel mucchio è più facile. Per questo oggi l’ancora di salvezza è riuscire a cogliere nella folla un volto, a distinguere nel chiasso generale una voce non estranea, addolorata, fuori dal coro, che ci trattenga dal dire in modo istintivo e stupido «tutti loro». Fra i tanti insegnamenti che, spero, trarremo da questo periodo di angoscia e di vergogna, è quello di porre attenzione al singolo, di riconoscere che la voce della «singola persona» è sempre più importante di qualsiasi proclama politico e ideologia.
25 aprile. Ieri ho sentito una nuova versione della teoria della razza. «Quando avremo sbattuto fuori tutti gli ebrei, cominceremo a star bene», così diceva al tavolo vicino un giovanotto d’aspetto manageriale, esibendosi davanti a una signorina molto truccata. Per ebrei intendeva «tutti quelli che non amano la Russia, che vanno alle manifestazioni e difendono gli “omo”; hanno messo in croce Cristo e adesso gli dà fastidio che la Crimea sia nostra». La signorina assentiva, la conversazione scivolava da un argomento all’altro; quando hanno esaurito gli argomenti, si sono messi a parlare delle vacanze e qui ho scoperto che andranno… a Eilat. Alla faccia della «Crimea nostra» e degli ebrei. E mi vien da pensare che bisogna pregare tanto per chi è stato intossicato dalle bugie che stillano dagli schermi, che vagano per la rete strisciando da uno all’altro e passano per «voci confermate». Per chi non sa più a cosa credere e per questo è disposto a credere alle cose più brutte, e per la confusione e il dolore si convince che il mondo è senza speranza, e che solo il male è vero, anzi più è tremendo più è credibile. Per chi cerca sostegno nell’odio perché altrimenti non sa come continuare a vivere. E pregare anche per noi, che ci affanniamo a disingannare, a convincere, a discutere ma non siamo capaci di ascoltare con sufficiente compassione e profondità, così che il nostro stesso ascoltare, lo sguardo, l’abbraccio, la mano tesa diventino consolazione e speranza. Che il Signore ci dia a tutti chiarezza e misericordia.