La sua voce frantuma il silenzio che la Chiesa delle Beatitudini conquista a fine giornata, quando i pellegrini sciamano verso Nazareth, stracchi di emozioni e fatica. Ha la pelle del volto ambrata, i capelli si indovinano grigi sotto il velo e due occhi magnetici, di un verde liquido e brillante che solo certi tipi mediorientali possono vantare. Il vestito è bianco, miracolosamente inamidato, e nonostante il caldo della giornata esibisce ancora la piega del ferro sul davanti. Chiede se vogliamo far dire una messa, per i “morti ma anche e soprattutto per i vivi” che a volte “hanno più bisogno di preghiere”. 



L’italiano spedito non inganna e subito dice di venire dall’Iraq. Vocazione francescana destinata ad un’altra terra che non conosce pace, Suor Colombia, deve il nome ad uno zio burlone, prete che aveva studiato all’estero e dall’Egitto era tornato con l’idea di affibbiare a lei un continente e al fratello un nome esotico persino per un paese arabo. A Mosul, nel nord martoriato dell’Iraq, ci ritorna quindici giorni l’anno, a trovare fratelli e parenti, mentre il babbo e la mamma stazionano già in paradiso. 



Avrà più o meno 50 anni, ma è quel genere di donna che rimane giovane per sempre. Racconta di aver studiato in Italia, dalle parti di via delle Sette Chiese, ma che non rimpiange quel periodo in cui si è trovata al centro della Cristianità, perché ora vive nel centro del mondo. Non è difficile crederle: suor Colombia gira intorno all’altare della Chiesa pensata dall’italiano Barluzzi, raccoglie offerte e intenzioni per le messe (50 sheckel o 10 euro, più un fogliettino di carta riciclata per scrivere nome e cognome, con una croce affianco nel caso la persona sia deceduta), zittisce con un sibilo chi alza la voce e sorride a chi viene in cerca di speranza. Sul monte delle Beatitudini la gente arriva assetata, dopo una galoppata attraverso la Galilea che fa vivere in un giorno tre anni di Vangeli per contemplare il panorama e restaurare l’anima con la promessa della felicità cristiana. 



Suor Colombia resta, a lavorare, giorno dopo giorno, rassettando e piegando le casule per i celebranti, a riordinare ciò che altri sparpagliano, a organizzare le messe prenotate. È beata sulla collina che guarda il lago. E non solo perché gode di una delle viste più belle della Galilea. La cosa è evidente. C’è di più e di meglio nella sua vita. Vede la gente, credenti e non, affollarsi nel girotondo del portico che circonda la chiesa a pinta ottagonale, ripetere la litania delle beatitudini, e sa che tutto è vero. 

Per questo dice che non importa se non riuscirà a vedere Papa Francesco. La superiora non ha ancora deciso chi mandare a Betlemme, l’unico luogo dove Bergoglio celebrerà una messa pubblica, domenica 25 maggio. I biglietti sono pochissimi, 5mila per tutti i cristiani di Israele, e ogni congregazione religiosa ha diritto a tre presenze. Il viaggio sarà complicato: sveglia all’alba, pulmann e check-point intasato da oltre 10mila fedeli. 

Facile che lei rimanga appollaiata sul monte, guardando in direzione di Gerusalemme. Non le dispiace. Altrimenti chi prega per tutti quelli che vengono a chiedere grazie? E poi come lasciare quell’anfiteatro naturale che degrada fino al lago, la bellezza di quell’angolo di pace? Con lei ha la frase del “discorso della Montagna” più amata: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”. (Mt 4,8)

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