Come le tubature collegano una casa con il suo ambiente circostante, così la politica estera connette un luogo al resto del mondo. Senza le tubature, la casa, benché solidamente costruita, resterà isolata dal resto, e quindi perde in valore, attrattività e in sicurezza. Lo stesso assioma vale per gli stati e gli insiemi di stati. Ad esempio, sia l’Ue che l’Occidente, intesi come insiemi di stati, non dispongono di una politica estera ma di scelte egoistiche avversative, diacroniche e divergenti, che non nascono da una sommatoria delle singolarità effettuali ma dalla capacità egemonizzatrice di taluni e dalla contingenza esogena. Il progetto valoriale che univa questi insiemi si è dissolto.



Nel caso dell’Unione europea si deve riconoscere che l’architettura istituzionale voluta dal Trattato di Lisbona ha fallito, sia operativamente che ontologicamente, nel superare quella concezione coloniale e post-coloniale che gli stati membri hanno trasferito dal livello nazionale a quello comunitario. Il primo esercizio di applicazione della politica estera dell’Ue (2009-2014) ha mostrato tutti i suoi limiti concettuali prima ancora che di efficacia. In particolare, l’Ue non ha saputo sviluppare una visione strategica per il XXI secolo. Le sue linee guida sono un misto di burocrazia e di misticismo avulse dalla realtà. Infatti, essa è rimasta apaticamente in parte all’ombra dell’egemone americano e in parte in preda del caos generatosi con la fine del bipolarismo e l’emergere di un imperfetto multipolarismo mondiale.



Le due principali politiche europee in materia di esteri e sicurezza – allargamento e vicinato – hanno portato (e a volte provocato) risultati di cui preoccuparsi: una grave frattura con l’heartland eurasiatico e in particolare con la Russia; un caos generalizzato e l’esplosione della violenza su tutti i confini meridionali e sud-orientali. Relativamente al posizionamento globale dell’Ue si rilevano: una sconfitta nelle relazioni bilaterali Ue-Russia, e quindi con i paesi del Cis; un doppio stallo nelle relazioni bilaterali Ue-Usa e Ue-Cina, e quindi con gli insiemi di paesi a essi collegabili. A questo deve aggiungersi un evidente declino della proiezione culturale e valoriale europea che, vittima della morte delle idee e ideologie del XIX secolo, non ha elaborato altro che un appiattimento sul laicismo e sulle tecniche gestionali di matrice anglo-americana.



Questi risultati sono ancor più preoccupanti se si considera che essi si sono materializzati in un momento molto favorevole all’emergere di un’Europa come attore geopolitico che era stigmatizzato dalla “domanda di Europa” proveniente dal resto del mondo in coincidenza al parziale ridimensionamento dell’egemonia americana in Europa e nel mondo. Invece, l’Ue ha continuato a crogiolarsi con l’autoesaltazione di essere “il più grande mercato” del mondo, senza visione a medio e lungo termine. Ciò non fa che aumentare le conseguenze negative di tale situazione che a medio termine – secondo diversi studi tra il 2020 e il 2025 – vedrà la definitiva marginalizzazione europea sulla scena mondiale.

Da un recente studio della Mckinsey sulla ridefinizione e lo sviluppo dei flussi mondiali appare evidente che tra il 2001 e il 2013 i flussi mondiali finanziari, di beni, servizi e dei dati, si sono diversificati. L’Europa non è più con gli Usa il cuore del sistema di flussi mondiali. Infatti, il sistema dei flussi è ormai saldamente tripolare suddiviso in una distribuzione piuttosto egualitaria tra l’insieme americano (Nord e Sud), l’Europa, e l’Eurasia (Occidentale e Orientale). L’Africa e il Medio oriente, il sub-continente indiano, e la Cina hanno assunto rilevanza principalmente nei settori dei beni e dei dati, mentre in quello finanziario e dei servizi sono ancora piuttosto deboli rispetto ai flussi Usa-Ue.

Queste belle cartografie ci illustrano che l’insieme di stati che avrebbe dovuto più di ogni altro sviluppare una nuova visione di politica estera e di sicurezza è l’Unione europea che, non occupando più un posizionamento monodirezionale prevalentemente in Occidente, doveva sfruttare la leva portata dalla mondializzazione elaborando una visione olistica mondiale di equi-cooperazione con gli insiemi statali orientali e occidentali. Come abbiamo visto sopra, così non è stato. Infatti, l’Ue non solo ha nullificato l’effetto positivo della mondializzazione – cioè il controllo centrale dei flussi in entrata e in uscita – ma è rimasta intrappolata dagli errori commessi nel proprio vicinato. Inoltre, l’Ue, ridottasi a un mero esercizio di egemonia burocratico-regolamentare interna, è riuscita anche ad alienare almeno il 10% del sentimento europeista dei suoi stessi cittadini votanti. Se poi a questo dato si sommasse quello dell’astensione (più del 55%) si capisce senza dubbio che l’Ue è vittima di errori fondamentali auto-inflitti. Riformare l’Ue è un errore ideologico e di prospettiva. Ormai ci vuole una nuova Unione europea con un nuovo progetto adattato alla realtà del XXI secolo.

Dalle stesse citate cartografie emerge che gli Usa non si trovano in un posizionamento spaziale favorevole. Infatti, essi sono a uno dei due estremi delle mappe dei flussi mondiali, mentre l’Europa è proprio nel mezzo (in entrata e in uscita). Nonostante ciò, gli Usa hanno cercato di diversificare le proprie relazioni internazionali bilanciando la perdita di peso europeo con l’emergere di quello asiatico e dell’America Latina. Il famoso pivot asiatico di Obama non era altro che questo. Gli unici settori ancora preminenti nel 2013 tra Usa e Ue (in particolare Uk) sono quelli finanziari e dei servizi. Non a caso sono proprio i due settori più scivolosi per la conclusione dell’accordo transatlantico di libero commercio attualmente in discussione (Ttip). Nell’ottica americana, il progetto di free trade zone Usa-Ue è probabilmente l’ultima chiamata all’Europa prima che gli Usa, che sono ancora la sola superpotenza occidentale, decidano altrimenti.

È in questo quadro che si deve leggere il forte dibattito interno agli establishment Usa in materia di politica estera e di sicurezza. Probabilmente non sarà l’attuale presidente americano, Obama, che detterà la nuova dottrina Usa. Infatti, nel suo importante discorso pronunciato all’iconica accademia militare di West Point, Obama ha cercato con un’abile retorica di non scontentare nessuno, difatti scontentando tutti. Un incomprensibile groviglio di mezze misure, tra aspirazione egemonica e limitatezza dei mezzi e della passione popolare. Insomma, la sintesi è “fare senza strafare”, come ha scritto Giuliano Ferrara su Il Foglio.

Così l’Europa resta sola a dover gestire la sua crisi e l’irrisolto “problema tedesco” (la terza volta in 100 anni), mentre gli Usa dovranno decidere se e come diventare un Paese “normale” nel mondo del XXI secolo. Un’impresa non facile dato che, come ha scritto con malinconico realismo il neocon Robert Kagan, l’America è sempre più autoreferenziale. Il confronto ideale negli Usa c’è e ha radici storiche profonde: realismo o idealismo? Mentre si sta disfacendo l’ordine mondiale costruito dagli Usa nel corso del ‘900 con guerre fredde e calde, si dovranno aspettare le elezioni di midterm del novembre 2014 e quelle presidenziali del 2016 per capire dove andrà l’America.

Intanto, come per gli Usa anche per l’Europa vale che sarà la “forza intelligente” a decidere sul nostro destino, creando un nuovo equilibrio tra libertà e benessere. Se l’Unione europea e i suoi stati nazionali non coglieranno questa sfida neppure questa volta, l’irrilevanza definitiva sarà il nostro paradigma nei prossimi decenni.

Ma in Italia viviamo sulla luna, con un Renzi convinto che farà cambiare verso all’Ue (ci crede solo lui), una Mogherini che decide con il presidente Napolitano delle nomine nel suo ministero degli Esteri, e con una ministra Boschi che si erge a liberatrice/accompagnatrice di bambini congolesi. Tutto molto bello per far illudere ancora gli italiani. Ma quando verrà un po’ di sostanza e di pensiero politico e strategico? Dai, fateci vedere qualcosa di vero adesso!