Mattina. Aeroporto di Juba, un girone infernale. La sera prima preparo la valigia nella sede di AVSI, la mattina presto la chiudo, con macchina fotografica e occhi pronti a viaggiare e vedere.
“La tigre non perde il sonno per il parere della pecora”, dunque pronta per partire.
I voli del World Food Program sono sempre pieni, l’aeroporto di Juba (che si fa chiamare “international”, ma la scritta che lo indica ormai è sbiadita per la polvere) la mattina è sempre pieno. Quasi pensi che ci siano voli per andare dappertutto.
Stamattina però il muro umano è più imponente del solito. Spintoni per un’ora, in coda per il check in. Mentre faccio il check in mi passano davanti un paio di persone mentre qualcun altro spinge, come sempre, come prima, ma stamattina più del solito.
Ogni spinta, ogni urlo, ogni incazzatura di qualcuno mi provoca soffocamento, ma più di tutto rabbia. Insofferenza. “Vuoi arrivare a non sopportarli, Anna?”. In coda per il check in mi passano sui piedi con valige e sacchetti enormi i sudanesi o sud sudanesi che cercano l’aereo per Kartoum. Nulla, proprio nulla di avventuroso e romantico, come pensavo in macchina, stamattina, verso l’aeroporto.
Dopo la coda per il check in un altro muro umano. Non riesco, fisicamente non riesco a mettermi in coda per i controlli e per entrare nella Waiting Room (una stanza con i cessi senza soffitto ma con delle splendide porte importate dall’Uganda, in vendita. Uno showroom come porte dei cessi dell’aeroporto di Juba. Dei cessi senza soffitto, ma con porte splendenti)
L’unica possibilità è spingere, strattonare qualcuno, litigare, pestare i piedi a qualcun altro. Poi magari alla fine ce la faccio.
Sto immobile, aspetto, respiro un po’ di aria, sono vicina all’uscita.
Potrei. Spingere. Litigare.
No.
Sono troppo piccola. Debole.
E non ho voglia di litigare, di incattivirmi, di essere infastidita da tutto e da tutti.
Non ho voglia di quella bruttezza. Di quel modo di trattarsi disumano, che ti capita di vedere da queste parti. Oggi così vivo, presente. Quella bruttezza non chiamava me. Non si può morire per quella disumanità.
Sarà un viaggio che farò tra un paio di giorni, ma stavolta non da sola.
Voglio la bellezza. Umanità. E compagnia.