L’offensiva delle milizie islamiste nell’Iraq del nord è giunta senza dubbio di sorpresa. Basti dire che solo qualche giorno fa una missione del governatorato di Mosul era venuta a Roma per proporre come luogo per profittevoli investimenti la regione che adesso si è trasformata in un campo di battaglia. Si tratta però di una sorpresa dal punto di vista tattico, ma non certo da quello strategico.  Gli islamisti dell’Isis, la maggiore tra le organizzazioni del genere schierate contro il regime di Bashar el-Assad, hanno attualmente lo stabile controllo di un’ampia parte della Siria del nord ai confini con l’Iraq. Era perciò prevedibile che se non fossero riusciti ad avanzare verso Damasco presto o tardi si sarebbero rivolti verso l’Iraq del Nord, verso Mosul e Kirkuk, ove già da tempo le forze del governo di Bagdad non riuscivano a tener testa agli islamisti locali. 



Per l’Isis l’obiettivo fondamentale non è tanto la caduta del regime di Bashar el-Assad o la sorte della Siria o dell’Iraq in quanto tali, bensì la creazione in qualche parte del Medio Oriente di uno “stato islamico del Levante” da usare quale base per future più ampie conquiste. In tale prospettiva un’espansione verso Mosul vale tanto quanto un’espansione verso Damasco; anzi, vale anche di più, tenuto conto della ricchezza dei campi petroliferi dell’Iraq del Nord. 



Più che il debole governo di Bagdad nell’immediato chi li può fermare è piuttosto la Regione Autonoma del Kurdistan iracheno, un territorio da decenni ormai di fatto indipendente e in pieno sviluppo economico. Mentre scriviamo circola la notizia che appunto forze provenienti da Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, hanno preso il controllo di Kirkuk sottraendolo ai miliziani islamisti venuti dalla Siria. D’altra parte il governo di Erbil si è già detto pronto a un intervento anche più ampio se il governo di Bagdad glielo chiedesse. Glielo chiederebbe tuttavia solo se fosse (ovvero quando sarà) con l’acqua alla gola, ben sapendo che ogni metro quadro guadagnato da Erbil ben difficilmente gli verrebbe poi restituito. 



Dal momento che le sue milizie non hanno un’organizzazione logistica tale da poterle sostenere a grande distanza dalle loro basi in Siria, né sono in grado di reggere scontri con forze militari normalmente armate ed addestrate, può anche darsi che l’offensiva dell’Isis si fermi senza affatto giungere a minacciare Bagdad; e che le drammatiche novità di questi giorni si risolvano quindi in un fuoco di paglia. Se anche ciò fosse, come speriamo, sarebbe un grave errore ritenere la questione chiusa invece di considerare l’accaduto per ciò che è: un segnale di allarme di cui tenere attentamente conto. 

Non si può pretendere di stabilizzare un’area dissestata come il Vicino e Medio Oriente senza chiamare attorno a un tavolo diplomatico tutte le parti in causa, ovvero tutte le forze che stanno sul campo. Nel caso in questione, piaccia o non piaccia, una delle più influenti parti in causa è l’Iran. E un altro interlocutore imprescindibile, piaccia o non piaccia, è il regime di Bashar el-Assad che sin qui si è dimostrato più forte di tutte le coalizioni che gli sono state montate contro. Quasi settant’anni di tentativi falliti di risolvere i vari problemi del Vicino e Medio Oriente ad uno ad uno, prescindendo dalla loro complessiva interconnessione, dovrebbero bastare. È ora di cambiare pagina, e un’eventuale politica mediterranea del nostro Paese, sin qui soltanto annunciata, potrebbe essere di grande aiuto al riguardo.