Sin da piccolo, facendo un sacco di sports, ho imparato un paio di cose. La prima è che può capitare di perdere, ma si gioca solo per vincere. La seconda è che sul campo uno è come è nella vita vera. Essendo pesarese sono cresciuto tra i canestri, e in qualche misura ci son sempre rimasto, anche se fisicamente ad un certo punto li ho lasciati. Per mancanza di centimetri, non di cuore. Paradossalmente, però, in questi lunghi anni d’America ho finito per seguire più altri sports. Sempre un occhio sul basketball, ma sempre meno affetto per i New York Knicks, soprattutto dall’arrivo di Carmelo Anthony. A riscaldare il mio cuore ci sono però Gregg Popovich ed i suoi Spurs, gli “speroni” di San Antonio, nel cuore del Texas. Terra infuocata dal sole ed incorniciata da superbe “missions” dei Francescani, compreso Fort Alamo, proprio nel bel mezzo della città, che prima di diventare l’ultimo baluardo di David Crockett e compagni contro l’invasione messicana era, appunto, una missione francescana.



Gli Spurs dicevamo. Non ho niente di più urgente di cui parlare? Qua continuano ad esserci shootings, i Repubblicani stanno combattendo una feroce guerra fratricida, l’Iraq chiede all’America un nuovo sforzo armato ed io parlo delle NBA Finals? Poi sono anche cominciati i mondiali di calcio…

Yes, parlo delle NBA Finals perché sono educative. Bellissime ed educative. Quelle di quest’anno certamente lo sono state. E non è (solo) una questione tecnica. Bellezza ed educazione, ne abbiamo tutti bisogno. Credo che lo sport abbia proprio questa vocazione: prenderci al cuore (ed allo stomaco) mostrandoci la bellezza di ciò di cui l’uomo è capace ed anche i suoi limiti; ed aiutarci a capire che per raggiungere risultati occorre un metodo, un lavoro, e pure un sacrificio. Nei giochi di squadra poi c’è anche la componente “misteriosa” dell’unità, c’è la scoperta che il proprio “io” non vive senza un “noi”.



Gli Spurs hanno vinto, ma guardarli è comunque un’esperienza di bellezza ed educazione. E di tecnica. Io – che sono un avidissimo osservatore (a volte un “ossessivo osservatore”) – gli Spurs li seguo da anni.

Mi colpi da subito quel modo di rapportarsi ai giocatori che aveva Gregg Popovich, l’allenatore di San Antonio, ora sessantacinquenne. Di solito gli allenatori delle squadre professionistiche, quelli “capaci”, sono dei domatori. Ecco, Popovich no. Il burbero, arcigno Popovich, l’ex ufficiale dell’Air Force che nessuno vuole intervistare per non essere preso a morsi, o – in una serata di buon umore – per non sentirsi rispondere a monogrammi, mi sembrò subito un “padre”. Un padre di quelli di una volta, di quelli che quando c’è da incavolarsi non la mandano a dire, di quelli capaci di prenderti a schiaffoni quando fai una pu***nata e darti un bacio due minuti dopo. 



Come facevano i miei genitori – del cui sconfinato affetto non ho mai dubitato anche tra brucianti sculacciate e sonore sberle. San Antonio ha dei grandissimi giocatori, ma non sono sicuro che lo sarebbero diventati senza Popovich. Magari sarebbero stati bravi, molto bravi, ma probabilmente non dei campioni da “NBA ring” e Basketball Hall of Fame. E Popovich senza di loro non sarebbe stato quel che è. E lo dice. C’è sempre stato tanto talento alle porte della NBA, ma per farlo fiorire occore qualcos’altro. “Occorre volergli bene ad un giocatore”, perché “solo se si sente voluto bene si accorgerà degli altri, farà con gli altri, farà per gli altri”. “Se non li aiuto a capire che la vita è più grande di un campo di pallacanestro…”. Parole di Popovich. Santo subito anche lui? No, ma mi affascina che una persona, andando sempre più a fondo di quel che fa (Popovich allena da quarant’anni), capisca che tutto c’entra con tutto. E lo comunichi col suo lavoro, con l’amore per quel che fa.

Sono proprio contento che il titolo sia andato agli Spurs. In una favola certamente sarebbe andato a loro. Nel mondo reale dello sport professionistico, quello fatto di tigri e domatori, non è detto che finisca così. Sarebbe un peccato, anzitutto per la pallacanestro. 

E probabilmente finirebbe come lo scorso anno, con Popovich a rimuginare “restlessly“, senza pace per lunghe settimane una dolorosa sconfitta, finché… “Finché mia figlia un giorno mi dice …”povero gregoriuccio, ha perso! La maggior parte degli allenatori lavorano una vita intera senza arrivare da nessuna parte, e lui perde una finale dopo averne vinte quattro …e piange!” Mi ha fatto ridere e ho pensato che non si campa facendo i bambini piagnoni. È già abbastanza difficile fare i conti con la realtà.

Forza Spurs!