Si sapeva da giorni che il premier britannico, David Cameron, aveva messo il veto alla candidatura a Presidente della Commissione Europea di Jean Claude Juncker. Prima che Der Spiegel divulgasse le frasi dette da Cameron direttamente ad Angela Merkel, c’era stato il durissimo attacco del Financial Times allo stesso Juncker. E anche se non sono arrivati commenti da Downing Street, si sa bene quale sia la posizione degli inglesi sulla questione: se viene eletto Juncker, noi usciamo dall’Unione Europea. Ieri Jean Claude Juncker ha risposto dicendo di essere “fiducioso” e pensa che “sarò eletto presidente della Commissione UE da qui a metà luglio”. Alla fine ha lanciato anche un ammonimento: “L’Europa non deve lasciarsi mettere sotto pressione”. Sarebbe interessante conoscere il pensiero nella sua completezza: da chi viene messa sotto pressione l’Europa in questo momento?
E’ vero che Londra, nella storia dell’Unione Europea, è incline a porre dei veti. Lo ha fatto nel 1994 contro Jean Luc Dehaene. Lo ha ripetuto nel 2004 contro Guy Verhofstadt, favorendo in questo modo la nomina di José Manuel Barroso. Ma la sensazione è che questa volta nel veto inglese ci sia qualche cosa di diverso e di più ampio. C’è sicuramente in questo veto un aspetto istituzionale. Londra rifiuta radicalmente la nuova procedura di nomina del Presidente, che viene ora subordinata ai partiti politici e non più ai governi nazionali che erano i veri artefici delle nomine. Il cosiddetto “passo avanti” federativo, agli inglesi non piace affatto, perché lo vivono come una perdita di sovranità. Ma c’è dell’altro. C’è un contesto politico europeo che convince sempre meno la Gran Bretagna. La stragrande maggioranza di chi è andato a votare ha confermato la sua fiducia all’europeismo. Ma perché si fa notare negli ambienti inglesi, con insistenza, la permanente bassa affluenza alle urne?
Poi c’è il risultato delle forze contrarie all’Europa, che questa volta non sono marginali gruppi di oppositori. In Francia vince Marine Le Pen con il Front National, diventando il primo partito. In Gran Bretagna vince Nigel Farage con la sua Ukip. Non si può obiettare che si tratti solo di due Paesi europei. Si parla della Francia, uno dei “cuori” dell’Europa, e della Gran Bretagna il “ponte” atlantico con gli Stati Uniti. Quindi due Paesi con un peso politico determinante sul futuro degli assetti politici europei e mondiali.
Certamente, Cameron, incalzato dalla linea vincente di Nigel Farage, cerca in questo momento di recuperare voti e consensi. Ma è solamente questo il calcolo che sta facendo il leader inglese? Forse bisognerebbe uscire da questa logica del “cortile di casa” e osservare con una certa attenzione sia il complessivo contesto politico europeo, sia i rapporti esistenti tra l’Europa e l’altra sponda dell’Atlantico, gli Stati Uniti. Si discute sempre sul famoso Trattato transatlantico internazionale, che, se tutto va bene, dovrebbe entrare in funzione fra tre anni.
Lì si gioca già una partita decisiva. Ma non c’è solo questo al centro di una possibile e probabile disputa tra Unione Europea e Stati Uniti. C’è la questione dell’Ucraina e i rapporti con il leader russo Vladimir Putin. Non si può affatto dire che, nonostante rassicurazioni e apparenti convergenze, la linea europea, quella di Angela Merkel in particolare, sia in sintonia con quella americana.
Di fatto, sotto sotto ma non troppo, gli americani continuano a criticare i rapporti, anche commerciali tra Europa e Russia. Continuano a criticare la sostanziale linea morbida nelle sanzioni dell’Europa verso Putin. In questo caso si potrebbero aggiungere anche valutazioni di carattere militare, che riguardano lo stesso ruolo e il futuro della Nato, dell’alleanza militare. Infine ci sono le scelte di politica economica. Sarà un caso, ma proprio Timothy Geithner, di cui si parla molto in questi giorni per il suo libro, fu al centro di uno scontro durissimo sulle scelte di politica economica con, appunto, il nuovo candidato alla presidenza della Commissione Europa, Jean Claude Juncker. Forse la stampa ha la memoria corta, ma Juncker rimproverò a Geithner, in modo severo, che furono proprio gli Stati Uniti a esportare la grande crisi nel 2007. E Juncker aggiunse: che cosa avete da dirci adesso? Se si tira una breve sintesi di questi elementi, si può dedurre che i rapporti tra l’una e l’altra sponda dell’Atlantico, al di là dei convenevoli, non sono affatto idilliaci come qualcuno, che fa finta di vivere sulle nuvole, può immaginare.
Ed è per tutta questa serie di considerazioni, che vanno dalla politica economica, alle scelte di politica internazionale, che si intravede nel nuovo veto di David Cameron una “manina”, o meglio dire un suggerimento degli americani. Come Cameron e gli inglesi, gli americani sono stati sempre contrari a una svolta federativa europea. Se a questa scelta di carattere istituzionale si aggiunge tutto il resto, con un più il destabilizzato quadro europeo dopo il voto del 25 maggio, si possono trarre conclusioni sulla posizione di Cameron di diverso genere che non la sola affermazione di Farage. Quale momento migliore per dare una “spallata” o una “spinta” all’Europa? Forse, nella dichiarazione di Juncker “L’Europa non deve farsi mettere sotto pressione”, il pensiero non era rivolto solo verso Londra, ma molto più in là verso Ovest, al di là dell’Atlantico.