Non saranno di certo i tanti o pochi consiglieri militari inviati da Barack Obama a risolvere una situazione che oltre ad essere complicata dal punto di vista della strategia militare da attuare nell’immediato, è oltremodo spaventosa se osserviamo con attenzione i sommovimenti dell’intera area mediorientale e il grande risveglio terroristico in atto.
L’escalation di violenza che stanno portando avanti i jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante è soltanto una delle cento, mille operazioni di violenza che dobbiamo aspettarci nel medio periodo. La prima ragione sta negli obiettivi che si pone l’Isil, la cui priorità è quella di cancellare la presenza sciita da tutto il Medio Oriente, per poter aspirare alla costruzione di una sorta di impero sunnita in tutti i paesi dell’area. Un chiaro progetto politico.
Un progetto di potere che viene addirittura anteposto alle regole della jihad, facilitato enormemente dalla crescente emarginazione della popolazione sunnita in Iraq e quindi dall’opposizione della gran parte delle comunità sunnite all’esecutivo in carica, molto vicino a Teheran. Questo atteggiamento del Governo nei confronti delle minoranze ha spalancato le porte delle città all’avanzata di queste milizie. Sono ormai all’ordine del giorno gli appelli dei leader religiosi sunniti ad unirsi alla guerriglia per combattere contro il Governo di Baghdad. La storia si ripete e la politica non sembra avere imparato la lezione: il fondamentalismo sopravvive sempre e solo in contesti di forte instabilità e con l’aiuto di una parte delle comunità locali maltrattate dal Governo.
L’analisi non può quindi arrestarsi sul fatto che sia o meno opportuno e risolutivo un intervento statunitense in difesa del governo di Al Maliki. La risposta è evidentemente negativa e il quesito è fuorviante. Dobbiamo partire dal fatto che i terroristi dell’Isil sono da anni in prima linea nella lotta contro il regime siriano di Bashar al Assad. L’avanzata in territorio iracheno dell’Isil è quindi anche figlia della guerriglia anti Assad in Siria e delle valutazioni sbagliate che sono state fatte dalla comunità internazionale all’epoca delle prime rivolte che hanno portato all’esplosione della guerra civile in Siria.
E’ opportuno che il mondo occidentale e tutta la comunità internazionale possa immediatamente rendersi conto che la crescita di questi movimenti qaedisti, tutto quello che si muove dal deserto algerino fino ai paesi dove opera stabilmente il fondamentalismo come Afghanistan e Indonesia, sono un fatto che accompagnerà per decenni la vita delle nostre comunità.
Per poter mettere a punto una strategia di contrasto a questi fenomeni che possa andare al di là della contingenza, ma debellare in maniera definitiva la piaga del terrorismo, la comunità internazionale deve risolvere alcuni nodi legati alle ambiguità del contesto istituzionale. Sarà estremamente difficile trovare soluzioni adeguate fintanto che all’interno delle Nazioni Unite verrà consentito di pubblicizzare e rilanciare il dibattito sui temi legati alla predicazione fondamentalista.
Pensiamo ad esempio a paesi come il Sudan o la Libia di Gheddafi, le cui posizioni politiche sono state spesso e volentieri salvaguardate da alleanze trasversali. Il tema del fondamentalismo non deve quindi essere ritirato fuori dal cilindro in queste settimane solo alla luce del pericolo costituito dall’Isil, ma deve essere condotta una battaglia di democrazia per promuovere in maniera unitaria l’idea di convivenza civile che la comunità internazionale è chiamata a costruire. In questo anche l’Unione europea deve sciogliere alcuni nodi legati al proprio progetto politico.
Il mio augurio è che se veramente sarà un italiano a prendere la guida della politica estera europea, questo possa costituire l’inizio effettivo di una vera politica estera e che egli non venga considerato come l’ennesimo dirigente soprammobile chiamato a ratificare le non-decisioni prese da ogni singolo stato membro.