NEW YORK – Domanda: “Ritenete che il Presidente Obama abbia spiegato con chiarezza quali siano gli obiettivi degli Stati Uniti in Iraq?”. Risposta: “Sì, 23%. No, 67%”.
Mentre le forze dell’Isis (Islamic State of Iraq and Syria) entrano in pieno controllo della zona di frontiera ovest, quella di Siria e Giordania, l’America ha i crampi allo stomaco. Oltre dieci anni di guerra e migliaia di vite spese per cosa? E’ questa domanda piena di smarrita amarezza a dettare il tono di quella risposta raccolta attraverso tutto il paese da un recente sondaggio del New York Times. Gli americani sanno a malapena da che parte del mondo è l’Iraq. La geografia non è mai stata un punto di forza dell’educazione scolastica. Poi, per quel che si può capire da qua, “là” sono tutti musulmani, certi cattivi (ma tutto sommato vicini agli americani), altri cattivi, molto cattivi e basta. Non ci sono né sciiti né sunniti, c’era Saddam, un dittatore crudele, e adesso che non c’è più ci si ammazza più di prima. Stessa cosa in Libia, stessa cosa in Egitto. Ma l’Iraq anzitutto. Quella terra che appare sempre arida e pietrosa si è bevuta sangue, cuore e cervello di tanta gioventù per far fiorire solo violenza.
Ecco, questo è quel che l’America vede e capisce. Una visione piuttosto semplificata, anzi, certamente semplicistica di un quadro molto più complesso, eppure, in fondo in fondo, una fotografia che raccoglie gli elementi essenziali della situazione. Con la consapevolezza di saperne poco. Ma proprio per questo occorre che qualcuno ci capisca! Nei momenti di smarrimento gli americani si rivolgono al loro presidente, si raccolgono attorno a lui perché il presidente è una guida sicura, il faro che illuminerà la notte più buia ed indicherà il cammino certo. Not this time, non questa volta.
Questa volta il 67% degli americani si chiede che cosa – if anything, cioè, sempre che ci sia qualcosa – il presidente abbia in mente in merito alla situazione in Iraq. La promessa di portar via le truppe dai deserti arabi è stata mantenuta, ma abbiamo sacrificato tutto quel che abbiamo sacrificato inutilmente? Noi, il popolo d’America, ci mettiamo sangue, sudore e lacrime, ma chi ci guida deve sapere dove ci sta portando. Obama non lo sa, c’è poco da dire. Non lo dice “con chiarezza” perché – per dirlo con chiarezza – non sa che pesci pigliare. Si sentono le tragiche notizie da quell’angolo di mondo, si ripensa al caso Bergdhal e si ha proprio l’impressione che Obama si stia muovendo a caso.
Se il “peccato originale” dell’invasione dell’Iraq è dell’amministrazione Bush – un mix di “buone intenzioni”, fisse ideologiche, grossolana presunzione e sommarietà – la risposta di Obama ed Hillary Clinton, tesa al fine opposto cioè quello del disimpegno militare, ha mostrato le stesse debolezze. Togliendo però la pressione esercitata dall’impegno militare “la debolezza” è divenuta il fattore dominante della presenza-assenza americana.
Quale debolezza? Anzitutto una inaccettabile mancanza di conoscenza e comprensione del mondo arabo. L’abbiamo detto altre volte, ma non lo diremo mai abbastanza: non capire che non si possono applicare meccanicamente le proprie categorie ad un altro popolo che ha una storia diversa, una tradizione, una cultura una sensibilità diverse è un errore tanto infantile quanto tragico. Non capire che dire “democrazia”, “libertà”, o anche solo “io sono buono e voglio farti del bene” non è la stessa cosa da questa e quella parte del mondo è un errore imperdonabile. San Paolo, con l’intelligenza della fede, se fosse stato Segretario di Stato avrebbe trovato il modo di farsi “Iracheno con gli Iracheni”. Perché non c’è altro modo, non c’è altra strada. Sarà lunga, interminabile, ma è l’unica. Una cosa è raccogliere il consenso di una nazione (la propria) su temi come gay marriage e assicurazione sanitaria, un consenso “a livello di pensiero” (nella pratica l’Obamacare è già un tragicomico fallimento e il gay marriage una farsa della pretesa di autodeterminazione); altro è essere costruttori di pace. Obama ha un premio Nobel per la pace sul comodino – regalato da voi Europei. Hillary non ce l’ha, ma vorrebbe riprovare a diventare presidente. Ma statuetta o no, costoro costruttori di pace non sono. È molto più difficile essere costruttori di pace che essere contro la guerra.