Nell’Afghanistan che sabato 14 giugno andrà al ballottaggio per scegliere il proprio presidente, si intensificano gli attentati: l’altro ieri un ordigno è esploso al passaggio dell’auto del candidato favorito, Abdullah Abdullah, rimasto illeso. Entro quest’anno si concluderà il ritiro delle forze internazionali presenti in Afghanistan, che comprendono anche il contingente italiano. È riuscita la tanto discussa operazione militare internazionale? Abbiamo chiesto a Toni Capuozzo, inviato di guerra, già vicedirettore di TG5 e conduttore di “Terra!” di commentare questi avvenimenti.
A una settimana dal voto, Abdullah Abdullah, il candidato favorito nella corsa per la presidenza, è scampati a un attentato, mentre 6 civili sono rimasti uccisi. Come legge questo fatto?
Neanche il più ottimista al mondo poteva sperare in una transizione senza incidenti. Più ci sarà la possibilità che l’Afghanistan divenga padrone del proprio destino, più le violenze cresceranno. Di certo è sbagliato ricondurre le violenze alla presenza delle forze internazionali.
Alla vigilia del ballottaggio di domenica 14 gli agenti afghani sono autonomi nella tutela della regolarità del voto o hanno ancora necessità di un sostegno? Il ritiro delle forze internazionali si concluderà entro quest’anno…
Sono assolutamente convinto che non fosse possibile una transizione tenendo l’Afghanistan sotto tutela fino al punto in cui le forze preposte fossero diventate adulte e in grado di gestire in modo perfetto ogni cosa. Ci sono deficienze evidenti nelle forze di intelligence e nelle forze armate, basti pensare al problema delle infiltrazioni nelle forze di polizia. Non era pensabile una situazione perfetta, credo che tutti i rischi del genere andavano corsi. Non vedo alternative.
Come stanno vivendo i nostri contingenti che si trovano là?
È una fase delicata perché sempre quando ti ritiri hai il fianco scoperto, hai meno forza, puoi diventare un obiettivo per le forze interne dell’Afghanistan. Il fatto di andartene non è che ti ponga improvvisamente fuori dalla scacchiera.
Cosa lasceranno: una democrazia o un vuoto che riempiranno i talebani? Si è riusciti nella tanto discussa esportazione della democrazia?
Né l’una cosa né l’altra. È irrealistica questa idea di lasciarsi dietro un regalo o un vuoto. In questi dieci e passa anni almeno una generazione di bambine afghane è andata a scuola, è diventata adulta. E si sono andate affermando, specie a Kabul, anche in altre zone ma soprattutto a Kabul, delle abitudini che hanno messo radici, penso allo stesso diritto di voto. Non vedo una democrazia compiuta né un vuoto fisico riempito dai talebani.
Forse c’è sproporzione con quanto si è ottenuto in un lasso di tempo così lungo: le missioni perfette d’altra parte durano poco perché hanno un obiettivo limitato. Questa era forse ambiziosa, posso capire che i risultati non premino gli sforzi fatti in un perdurare così lungo.
Questa mattina in tv è passato un servizio sportivo su una squadra di calcio femminile afghana. Con i talebani lo sport era vietato. E Abdullah Abdullah subito dopo l’attentato ha twittato: “le minacce non possono fermare noi e la nostra gente”. Gli afghani hanno realmente fatto un’esperienza di libertà?
Sarei cauto, non prenderei quell’esempio: sappiamo bene che lo sport è sempre stato arma di propaganda delle dittature, anche se ci fu il caso della maratoneta afghana minacciata di morte per essersi qualificata alle Olimpiadi. Penso invece che sia l’istruzione la carta vincente. Generazioni di bambine afghane sono andate a scuola, sono diventate adulte, e questo è costato loro e alle loro famiglie minacce, sfregi con l’alcool. Ma ha voluto dire aprirle a un futuro che non sia solo quello di procreatrici di figli e custodi del focolare domestico, custodi che non potevano nemmeno andare a fare la spesa.
Oltre cinquanta nostri militari non sono tornati. Perché è stato necessario andare in Afghanistan quando sembra così lontano e così poco incidente sulla nostra vita?
Intanto spero che non sia più necessario ritornarci. Una missione non può protrarsi all’infinito. È fatica ragionare con i se − se non ci fossimo andati cosa sarebbe accaduto, eccetera −. Ma oggi nessuno osa dire cosa ne sarebbe stato del mondo se l’Afghanistan avesse continuato a essere una terra franca per i fondamentalisti, nessuno può contare il sangue risparmiato. Dimentichiamo troppo facilmente che tutto è partito dall’11 settembre. Pensiamo a ciò che sta accadendo in Siria: là non abbiamo speso nemmeno un uomo, ma oggi è una calamita per il terrorismo internazionale e ha prodotto l’attentato di Bruxelles, in un contagio di ritorno. Non ci si può permettere di vivere pensando che quello che non ci tocca, non ci riguarda. Davvero l’attentato di Bruxelles, quello di Atocha (Madrid, 11 marzo 2004, ndr), del metro di Londra (7 luglio 2005, ndr) non ci riguardano? Le zone di conflitto sono un trampolino, riguardano tutti.
(Daniela Tedioli)