In questo paese c’è un enorme rispetto per tutti coloro che vestono un’uniforme, dai pompieri ai poliziotti alle guardie forestali. Un rispetto specialissimo, e un grande affetto, verso i militari. Quando se ne incrocia uno per strada lo si saluta, gli si sorride con gratitudine come a un fratello maggiore a cui si vuol bene davvero. Quando ripenso all’anno sbattuto via a servire la patria, appena laureato e appena sposato, a far finta di armare quei cannoni di artiglieria pesante campale… Sbattuto via no, non si sbatte via niente. Però probabilmente avrei potuto fare qualcosa di più utile. Comunque qua tutto ciò che è militare è sacro, e ogni gesta eroica.
Adesso però salta fuori Bowe Bergdahl e scompiglia tutto. Avete presente? Un americano, l’unico prigioniero di guerra (POW l’acronimo che usiamo qua) in Afghanistan, contro cinque feroci combattenti talebani. Bergdahl se ne torna in America da chissà quale remoto angolo d’Afghanistan, i cinque dalla famigerata prigione di Guantanamo se ne tornano a fare la rivoluzione talebana.
Non appena le prime notizie dell’avvenuto scambio sono cominciate a trapelare si è infiammato il dibattito politico. Poteva Obama, come presidente e come capo supremo delle forze armate, fare una cosa del genere, portare avanti un’operazione così delicata senza prima consultare il Congresso? Non riusciva ad immaginare il vespaio di polemiche che avrebbe suscitato? “Urgenza di agire a causa delle precarie condizioni di salute del prigioniero”, ha risposto la Casa Bianca. Ci sta. Si può capire e anche condividere. Tutti dovremmo essere capaci di capire l’infinito valore di una sola vita umana. Ma purtroppo le cose sono sempre più complesse (e spesso complicate) di quel che si vorrebbe, e poi occorre guardare ai passi ed alle scelte che si fanno in una prospettiva più ampia del singolo atto in sé. Cosa vuol dire? Vuol dire ad esempio – come insiste il sen. John McCain – che salvando la vita di Bargdahl apriamo la gabbia a cinque belve assetate di sangue americano che appena potranno di vite ne porteranno via ben più di una.
La gente sente parlare di queste cose e ondeggia tra una sponda e l’altra. Ma lo sapete quanti americani sono morti tra Iraq e Afghanistan? Seimilasettecento! 6.700 giovani, padri e madri partiti trepidanti e tornati in un sacco nero per raccogliere l’abbraccio di una bandiera a stelle e strisce. Allora la gente sbanda di qua e di là, commovendosi davanti ai genitori che presto potranno riabbracciare il loro Bowe, e tremando al pensiero che i loro figlioli al fronte si troveranno altri cinque terroristi a fiatar loro sul collo.
Ma la storia di Bergdahl, mentre si dipana un po’ alla volta, appare ancor più oscura di quanto possano esserlo cinque interminabili anni in balia dei talebani. L’immediato, naturale senso di gioia e di immedesimazione con i genitori del sergente si è subito beccato una sberla in faccia appena il padre ha aperto bocca: “Bism Allah Alrahman Alraheem”, ha esordito Robert dal podio presidenziale al quale Obama lo aveva invitato. “Nel nome di Allah, pieno di grazia e di misericordia”. Rivolto al figlio che forse ora fatica con l’inglese, ma non esattamente quello che gli americani volevano sentirsi dire. Perché l’ha fatto? Magari era dovuto come elemento propagandistico all’interno dello scambio?
E’ stato come sollevare il tombino di un pozzo nero. Bergdahl non fu catturato. Bergdahl se ne andò di sua volontà. Aveva impacchettato e spedito tutto ai suoi genitori, perché il suo era un gesto premeditato. In termini militari si chiama “diserzione”. Non furono i talebani a cercare Bergdahl, fu il giovane ad andare in cerca dei talebani diventando così loro prigioniero. Voleva parlarci.
Attraverso i messaggi inviati a casa subito prima della sparizione si vede un uomo deluso, amareggiato, tradito nei suoi ideali, profondamente turbato, “squilibrato” dalle esperienze vissute, dalla sofferenza e dalla morte viste e toccate con mano. Nessuno ama leggere queste cose. Nessuno, perché tutti sanno che sono vere.
E’ la guerra, quella bestia che è la guerra che come un virus fa diventare bestie tutti. Non ci sono più i buoni e i cattivi, si fa fatica a restare vivi e sembra quasi impossibile restare uomini. Gli americani restano aggrappati alla bandiera. Ma il sergente Bowe Bergdahl ha scelto diversamente. “I am ashamed of being American”, ha scritto – mi vergogno di essere americano.
Adesso che l’America di cui si vergogna lo ha liberato pagando un caro prezzo, Bergdahl avrà tempo per chiedersi come, dove e per cosa vorrà spendere la sua vita.
Adesso che Bowe è tornato, l’America si deve fermare un momento e chiedersi che civiltà sta costruendo combattendo queste guerre.