L’Onu ha dichiarato il più alto livello di emergenza come crisi umanitaria in Iraq, nel momento in cui lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante prosegue la sua avanzata nel Nord del Paese. Gli ufficiali curdi hanno spiegato che la situazione è particolarmente critica nella città di Dohuk, dove si trovano 150mila rifugiati. Gli Stati Uniti hanno però dichiarato di ritenere improbabile una missione di salvataggio per aiutare le migliaia di profughi che stanno fuggendo attraverso i rilievi del Monte Sinjar. Ne abbiamo parlato con Toni Capuozzo, che nel 2003-2004 ha seguito la seconda guerra del Golfo per conto del Tg5.



Com’è in questo momento la situazione in Iraq?

Purtroppo è il tragico fallimento di un decennio di interventi occidentali. Da un lato rimuovere Saddam Hussein era sacrosanto, dall’altra tutto quello che abbiamo celebrato di volta in volta come un passo in avanti è naufragato nel peggiore dei modi. Le avvisaglie di questo tragico epilogo c’erano da tempo, come documentano i cristiani iracheni che sono dovuti fuggire da Baghdad riparando in parte a Mosul e in parte perfino in Italia.



In che cosa consiste la vera novità dell’Isis?

Di fronte a questi fatti è forte la sorpresa. Abbiamo sempre pensato al fondamentalismo come a qualcosa che era fomentato dai superstiti di Saddam in città come Ramadi, Falluja e Tikrit, e invece è debordato dalla Siria. Per la prima volta non abbiamo a che fare con i “carbonari” di Al Qaeda, ma con un fondamentalismo integralista di grandi proporzioni, numericamente molto significativo e in aree molto importanti. A essere sotto il controllo dei jihadisti non è una striscia di deserto nel Nord del Niger, ma territori chiave sia dal punto di vista delle risorse materiali come il petrolio, sia delle risorse umane rappresentate dalla culla di civiltà antiche tra il Tigri e l’Eufrate. Siamo quindi di fronte a un fenomeno nuovo, che non è più il terrorismo da cui guardarsi negli aeroporti, nei grattacieli o nelle stazioni della metropolitana, ma una realtà presente sulla carta geografica.



L’Onu dovrebbe intervenire per fermare il Califfato?

In questo momento l’Onu si è dimostrata più attenta a quanto avviene a Gaza piuttosto che all’Iraq. Ciò si spiega con la composizione stessa delle Nazioni Unite, dove c’è una nutrita presenza di Paesi musulmani. Questi ultimi sono pronti a mettere venti punti esclamativi per ogni civile ucciso da Israele, ma non battono ciglio di fronte a migliaia di cristiani, di yazidi e di stessi musulmani messi in fuga dalle incursioni dei fondamentalisti in Siria e in Iraq.

 

Ieri intanto si è interrotta la tregua in Palestina. Lei come legge questo fatto?

Tanto Israele quanto Hamas hanno vinto e perso. Israele da un lato ha neutralizzato un certo numero di tunnel, in attesa di dotarsi degli strumenti tecnologici e scientifici per impedire che costituiscano una minaccia. Hamas da parte sua è riuscito a ottenere ciò che voleva: la morte di numerosi civili palestinesi, che costituiscono una vittoria per la propaganda.

 

Che senso ha continuare a scagliare missili sulle città israeliane?

Hamas sa di non poter costituire una concreta minaccia militare nei confronti di Israele. Può tenere sulla corda i cittadini israeliani, ma sa benissimo che il lancio dei razzi costituisce solo il conto alla rovescia per l’inizio dei bombardamenti di Israele su Gaza. Hamas è riuscita a farsi passare per vittima, sulla pelle dei suoi concittadini. Entrambi però nello stesso tempo hanno perso. Israele è risultata sconfitta sul piano dell’immagine, e non è riuscita a eliminare completamente i tunnel. Hamas ha raccolto forse più solidarietà tra gli attori di Hollywood che nel mondo arabo.

 

(Pietro Vernizzi)