La tensione non accenna a diminuire tra Russia e Ucraina, dove è stato lanciato l’ennesimo allarme, ripreso in poche ore da agenzie-stampa di tutto il mondo, circa un presunto attacco di colonne militari russe, confermato al telefono dal presidente ucraino Porošenko al premier britannico Cameron, ma che Mosca ha smentito categoricamente.



Per amara ironia della sorte, nell’epoca dell’informatizzazione, dell’informazione in tempo reale, la doppia verità di Orwell sembra continuare a governare incontrastata in questa parte del mondo. Colonne militari o aiuti umanitari, come dichiarano le autorità russe? Ma allora perché – si chiedono gli ucraini – si stanno muovendo secondo il percorso più lungo, cioè passando per Char’kov, anziché puntare direttamente verso le zone più colpite dai combattimenti? 



E d’altro canto, se le fonti ucraine parlavano di «sconfinamento in Ucraina di colonne militari russe» (che secondo Porošenko sarebbero state parzialmente distrutte), i servizi di sicurezza russi hanno dichiarato che reparti mobili di militari delle Guardie di Frontiera sono stati dislocati al confine con l’Ucraina per tutelare la popolazione, perché i residenti dei territori di confine sono minacciati dal crescente numero dei militari ucraini che sconfinano in Russia e dai colpi di artiglieria delle forze di Kiev impegnate contro gli insorti nell’est e che finiscono in territorio russo. Tali reparti, tuttavia – continua la fonte dell’Fsb, ripresa dall’agenzia Itar-Tass – «agiscono esclusivamente in territorio russo».



Grazie a Dio, qualche ora dopo l’allarme è sembrato essere rientrato, la notizia della temuta invasione armata della Russia non ha trovato conferme ed è probabilmente infondata. Le quotazioni delle borse mondiali, immediatamente crollate alla notizia, probabilmente risaliranno. 

Ma resta un fatto, gravissimo, la vera bomba innescata di cui noi tutti, in Ucraina come in Russia e anche in Europa non ci rendiamo conto a sufficienza, e che anzi continuiamo ad alimentare: la diffidenza, il sospetto e il rancore, che sembrano  essere l’unica lente attraverso cui guardarsi, da una parte all’altra della frontiera. 

E questo non vale solo per le autorità, i regimi, non riguarda solo l’Ue, Obama e Putin, non interessa solo l’imponente programma di rinforzo degli armamenti che quest’ultimo (pur asserendo di non volere un conflitto armato) ha annunciato nel discorso di due giorni fa in Crimea, o la guerra a colpi di sanzioni già in atto su scala mondiale. Un’amica ucraina, che ha i genitori anziani e malati a Belgorod, la prima città russa oltre il confine, si pone il problema se andarli a trovare: come mettere piede «di là»? Cosa mi faranno? E viceversa: accettare una borsa di studio a Kiev, sei pazza? – si allarma un rispettabile conoscente moscovita – lì ormai sono tutti banditi…

«Il mio cuore sanguina», ha detto ieri Papa Francesco pensando ai bambini in Iraq. Ma anche in Ucraina non fa notizia il capitale umano che si sta perdendo – i morti, i profughi, la gente stremata dalla tensione e dalla paura. Non si può non ripartire di qui, se si vuol essere «realisti» nel vero senso della parola. L’ha detto qualche giorno fa un filosofo di Char’kov, Aleksandr Filonenko, in un’intervista: «Le crisi sociali al giorno d’oggi, in Ucraina e nel mondo, sono legate al fatto che nella società non esiste la fiducia, non si è aperti gli uni agli altri, manca l’audacia di sperare in qualcosa di meglio, non si ha il coraggio di amare».

Tre giorni fa la Chiesa ortodossa ucraina ha eletto il suo nuovo primate, lo stesso metropolita Onufrij che nei momenti più drammatici del Majdan era stato un segno di unità per l’intera società ucraina, oltre che per la comunità ecclesiale. Apparentemente sono cose diverse, su piani diversi. Eppure, per distinguere una colonna militare da un convoglio di aiuti umanitari, per capire che differenza ci sia tra la pace vera e una tregua di compromesso in cui il conflitto viene semplicemente congelato, abbiamo bisogno, come ha detto ancora Filonenko, «di una autentica riconciliazione nazionale. Non basta lottare contro il male, occorre iniziare a lottare per il bene. E il ruolo dei cristiani è fondamentale». Perché la pace per noi non è un’idea, ma un’esperienza che fa dire all’arcivescovo caldeo di Mosul Amel Shamon Nona: «Nonostante il rischio di essere uccisi tra un’ora o un minuto, è possibile vivere ogni istante con piena speranza e piena gioia». «Siamo realisti, chiediamo l’impossibile», come faceva dire Camus al suo Caligola.

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