Nicole Tung, giornalista e fotografa americana, è stata amica e collega per quasi due anni di James Foley, il reporter americano decapitato dall’Is. I due hanno lavorato insieme in Libia, Siria, Turchia e altre zone calde del Medio Oriente, e avrebbero dovuto incontrarsi la sera in cui Foley è stato rapito da quattro uomini armati e mascherati. Le abbiamo chiesto una testimonianza diretta su Foley, che come hanno fatto e stanno facendo molti altri reporter in Medio Oriente ha scelto di sacrificare la vita per raccontare il dolore delle popolazioni civili schiacciate dal fondamentalismo islamico.



Nicole, quando ha incontrato per la prima volta Foley?

L’ho incontrato per la prima volta in Libia durante la rivoluzione contro Gheddafi nel 2011. Numerosi giornalisti si trovavano nello stesso hotel e lavoravano nello stesso media center. Ricordo il giorno in cui stavamo aspettando che si riavviasse la connessione Internet, che era molto lenta, e Foley si è diretto verso di me e ha incominciato a parlarmi dicendo: “Se hai bisogno di qualsiasi cosa, o di un passaggio in auto fino alla linea dei combattimenti, basta che mi cerchi e sarò felice di aiutarti”.



E il giorno in cui Foley è stato catturato dall’Is?

Quel giorno avevo superato il confine siriano per far riparare una macchina fotografica in Turchia. Avevamo deciso di incontrarci di nuovo appena James avesse finito di lavorare, e mi aveva scritto una e-mail in cui diceva che il giorno precedente si trovava nelle vicinanze di un carro armato quando quest’ultimo era esploso. Era un po’ scosso, e si preparava a lasciare a sua volta la Siria. Ci eravamo dati appuntamento in una cittadina turca di confine per le cinque di sera.

Quindi che cosa è successo?

L’ho aspettato per tre ore, continuando a chiamarlo sul cellulare e trovandolo sempre staccato, finché ho incominciato a preoccuparmi e ho deciso di telefonare al suo accompagnatore siriano. Appena mi ha risposto ho capito che qualcosa era andato storto, e subito ho avuto conferma del fatto che James era stato catturato da quattro uomini con il volto coperto.



Perché Foley aveva deciso di lavorare in Medio Oriente e affrontare pericoli di quella entità?

James mi ha detto più volte che per lui era importante recarsi in Medio Oriente, e fare quel lavoro, perché non c’erano abbastanza notizie su quanto accadeva in Paesi come la Siria o la Libia. La situazione per molti civili, e specialmente per i bambini, era molto grave, e James sentiva che era così importante il fatto di continuare a raccontare quanto stava accadendo in modo che il mondo non li dimenticasse.

Foley le ha mai detto di avere paura di essere catturato o ucciso?

Sì, e da come ne parlava avevo capito che non voleva che gli capitasse una seconda volta, perché era già stato prigioniero in Libia nel 2011. Era consapevole di questo rischio, ma nello stesso tempo era molto bravo a contenere la sua paura. Era certamente un po’ preoccupato, ma non era qualcosa che lo rendesse paranoico o incapace di lavorare.

 

Che cosa ne pensa delle ultime parole di Foley, con le quali ha attaccato Obama e criticato il suo stesso fratello per il fatto di lavorare nell’aeronautica Usa?

Sono fermamente convinta del fatto che sia stato costretto suo malgrado a dire quelle cose perché pur essendo rimasto in prigionia così a lungo, per quasi due anni, la sua personalità è così forte che non avrebbe mai accettato di essere spinto a cambiare le sue idee. James aveva un cuore buono, era motivato dal suo senso di giustizia, e sono certa che sia rimasto fino all’ultimo la stessa persona che avevo conosciuto.

 

(Pietro Vernizzi)