Un piccolo monastero a Sulaymaniyya, nel Kurdistan iracheno, dove si trovavano due monaci e una monaca, oggi si è popolato di rifugiati: sono 164 gli sfollati, che si sono recati nel monastero da alcune settimane. “Eravamo tre – racconta Sébastien Duhaut, monaco della comunità, alla rivista dei gesuiti, Popoli – e ora eccoci in 164″. Sono i rifugiati provenienti da Mosul perseguitati nel loro paese dai miliziani dell’Isis. Loro hanno trovato spazio nel piccolo convento dove “sono alloggiati in qualche modo, anzi stipati nella biblioteca, nel salone, nella chiesa, nella casa dei monaci, oltre che in qualche casa abbandonata che abbiamo pulito in fretta e messo a posto nei giorni scorsi”, racconta il monaco. Il mese di agosto era dedicato ai campi estivi dei giovani iracheni e “invece è con noi questa massa di persone – scrive nella sua lettera padre Sébastien -, alcune profondamente traumatizzate, fragili e sradicate più volte dal loro ambiente”.  Il padre racconta inoltre alcuni momenti di solidarietà tra gli sfollati, ma anche atteggiamenti egoistici: “La situazione di crisi – racconta il monaco a volte favorisce slanci di solidarietà ammirevoli, ma anche tensioni egoiste difficili da immaginare. C’è la famiglia che preferisce cucinare nella propria camera piuttosto che in cucina per non rischiare di condividere il fornello con altri rifugiati. Una decina di medici curdi e arabi, invece, dedicano cinque ore del loro tempo per proporre visite a tutti quelli che lo desiderano, utilizzando come studio una pila di materassi collocati in chiesa. Un idraulico di Qaraqosh, papà di un neonato, lavora dieci ore al giorno per portare l’acqua in tutte le case e rifiuta del tutto di farsi pagare”. (Serena Marotta)



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