La guerra in Terra santa continua senza sosta. Lo stesso accade in Siria, ancor di più in Iraq, dove il califfato avanza nel sangue delle vittime. Di ritorno dal viaggio apostolico in Sud Corea, papa Francesco ha esortato a fermare “l’aggressore ingiusto”, senza per questo fare guerre di conquista, in una logica di scontro di civiltà, di contrapposizione totale. Quella che, a giudicare dal dibattito su ogni parola detta e non detta dal papa, in occidente molti sembrano auspicare. Ne abbiamo parlato con Pierbattista Pizzaballa, francescano custode di Terra santa, che oggi parlerà su “Il potere del cuore. Ricercatori di verità”, titolo dell’incontro inaugurale del Meeting di Rimini.



Il papa, tornando dalla Corea, ha detto che la preghiera per la pace con Abu Mazen e Shimon Peres non è stata un fallimento. Lei ne convinto?
Certamente. Non si può misurare l’efficacia della preghiera come se fosse un prodotto da mercato. La preghiera ci immette in una dimensione diversa, non misurabile. Anzi, proprio quella preghiera è stata un segno molto potente, un segno che ci indica che il Medio oriente non è solo distruzione ma anche, se lo si vuole, capacità di dialogo e di incontro.



Dice così anche se la “porta aperta” da Francesco sembra chiudersi ogni giorno?
La porta è aperta, è il fumo delle bombe che non permette di vederla. Quella porta non sarà mai chiusa. Ci sono le bombe e le persecuzioni, ma ci sono anche tante persone che lavorano per la pace. Non si deve leggere la realtà guardando soltanto a questo momento, occorre farlo con la prospettiva più ampia della fede.

Di fronte a una tregua che continua a saltare e ad una pace che non si vede, lei quali sentimenti ha?
Capisco che si sia attoniti di fronte a questa violenza, ma sappiamo che prima o poi finirà. Quello che preoccupa di più, e lo dico in modo volutamente pardossale, non è tanto la violenza di questo momento, ma l’odio e il rancore che essa crea. Proprio per questo quel gesto di preghiera è stato importante, perché ci indica la via da seguire dopo che questa fase violenta sarà finita.



Poco più di un anno fa papa Francesco scongiurava l’attacco alla Siria. Oggi, per aver chiesto un intervento dell’Onu, è accusato di essersi mosso in ritardo, di invocare un intervento su basi fragili, perfino di “buonismo”. Lei cosa dice?
Sono sciocchezze. Innanzitutto il papa non è un leader politico e non fa dichiarazioni politiche. Poi non ha detto nulla di nuovo rispetto alla dottrina della Chiesa per quanto riguarda l’intervento armato. Buonista? Come leader religioso, dà prospettive e sostiene come nessun altro i fedeli nell’affrontare una situazione così drammatica.

Ma qual è il punto di vista della fede?

Un cristiano sa molto bene che la realtà non è vista nella sua verità completa se non è messa in relazione a Cristo. Chi lo dimentica e vuole giudicare i discorsi o le affermazioni del papa solo in chiave politica, o sociale, o mediatica va totalmente fuori strada. Ciò detto, i politici devono fare la loro parte.

Nemmeno Francesco si è mosso in ritardo rispetto a quanto accadeva?
Se c’è qualcuno che ha parlato da religioso del problema del Medio oriente, non solo dal punto di vista dei cristiani, ma anche del dramma umanitario che è in corso, è stato proprio il papa. Quelli che lo accusano − politici, analisti, organismi internazionali − forse sono loro che avrebbero dovuto muoversi per tempo. Il papa non ha divisioni da mandare e d’altronde non ci vuole il consenso del papa per andare in Iraq.

Di fronte al dramma in corso in Iraq e Siria e all’estrema violenza delle persecuzioni, non le sembra che si stia avverando la diagnosi di Samuel Huntington, quella dello “scontro di civiltà”?
No. Vede, lo sguardo che dobbiamo avere su quanto accade ha sempre bisogno di essere redento, non può fare a meno della Provvidenza. La barca di Pietro è sempre sballottata dalle onde, e c’è sempre qualcuno − anche sulla barca − che crede di sapere meglio cosa fare. Ma il cristiano sa molto bene che il male non è l’ultima parola del mondo e che anche se Satana dà battaglia, non può comunque vincere. No, non possiamo cedere a logiche di contrapposizione. Mai.

Quindi l’idea di uno scontro tra cristianesimo e islam…
Viene da uno schema prettamente politico, non religioso, dunque sbagliato o comunque incompleto e strumentale a contrapposizioni di cui si cercano le conseguenze sul piano delle decisioni politiche. Non credo che sia compito né del papa, né della Chiesa entrare in questo ambito. Compito della Chiesa è educare, ed educare all’accoglienza dell’altro. Ci sono cose, come il valore della vita, sulle quali non si può discutere. Per questo a nessuno dev’essere concesso di tagliare le teste. Questo deve essere detto con chiarezza, e se possibile, evitato, senza cercare però lo scontro, né culturale, né religioso, né civile.

Lei sarebbe favorevole, anche tenendo conto delle parole di papa Francesco, all’intervento di una coalizione o di alcune forze occidentali per fermare i persecutori?
Le aggressioni devono essere fermate, con i fanatici non credo proprio che si possa parlare. Il punto è che la forza, da sola, al di fuori di una prospettiva e di un contesto di costruzione, non risolve il problema.

Questo cosa significa?
Che bisogna pensare non soltanto a come fermare i violenti, ma anche a che cosa fare dopo. 

Nelle sue parole c’è una critica implicita a tutti i tentativi di esportare la democrazia, come è stato fatto in Iraq per dieci anni?

Direi che non è una critica implicita; è esplicita.

La pace si può fare davvero o è soltanto un fine auspicabile?
Dipende da cosa le si vuol mettere dentro. “Pace” è una bella parola, forse abusata. La pace finale ci sarà soltanto quando il Signore la instaurerà in maniera definitiva. Nel frattempo, noi che siamo qui dobbiamo costruirla continuamente, perché non è mai data una volta per tutte.

Il 25 maggio scorso, nella Basilica del Santo Sepolcro, Francesco disse “Non lasciamoci rubare il fondamento della nostra speranza”, e cioè la Resurrezione. Chi “ruba” oggi la speranza? E che cosa devono fare i cristiani per non lasciarsela sfilare?
Ruba la speranza chi non crede, chi cade preda della logica della paura o chi si lascia avvolgere dalla logica di chi è anticristiano. E questo vale per tutti, cristiani e no. Il cristiano, proprio in queste circostanze drammatiche, deve rispondere con l’essere ancora più cristiano. Non possiamo prescindere dalla Croce.

Le sarà certamente capitato di parlare con persone che le manifestano la volontà di andarsene, di abbandonare la propria terra. Lei che cosa risponde?
Se da un lato, quello umano, comprendo, dall’altro cerco di far capire le ragioni importanti per restare. Ma sempre con molto rispetto e comprensione, perché poi bisogna anche essere concreti, non solo richiamare un ideale. Che va sempre proposto nel totale rispetto delle libertà.

C’è un compito che solo i cristiani possono svolgere in Medio oriente e in Terra santa?
I cristiani devono poter vivere liberi come gli altri. Poi c’è una missione che è propria del cristiano, però non so come in questo momento possa realizzarsi. Forse al momento non è possibile.

Qual è questo compito che reputa così difficile?
Il perdono. Non si può parlare di giustizia senza parlare di perdono. Ma forse questo, ripeto, non è il momento. Bisogna attendere in silenzio.

Che cosa intende dire?
Quando ci sono solo le urla è impossibile ascoltare chi parla. C’è un momento per tutto, dice il Qoelet, ma in questo tempo di così grande male e di così grande dolore, è difficile parlare di perdono. La prospettiva però deve esserci, è quello il nostro compito.

(Federico Ferraù)