“Una vera politica europea puo mettere assieme una governance ordinata dei flussi migratori e la solidarietà dovuta verso quelli che bussano alla sua porta”. A dirlo e Mons. Silvano Maria Tomasi, Osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite, oggi ospite del Meeting di Rimini. In questa ampia intervista, mons. Tomasi affronta i temi più importanti del momento, dal dramma degli sbarchi (ieri sono morte 250 persone in un naufragio vicino alle coste libiche) a quello mediorientale (Iraq e Iran hanno chiesto uno “sforzo internazionale”).
Mons. Tomasi, lei è ospite di un Meeting dal titolo “Verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Il destino non ha lascito solo l’uomo”. Qual è il “centro” e quali sono le “periferie” del mondo in cui viviamo?
Un’interpretazione immediata dell’espressione che papa Francesco ha coniato per stimolare rinnovamento ed inclusione mi pare indichi prima come centro la cultura dominante contemporanea che si regge sull’interesse economico, il potere e il piacere e poi come periferia le vaste aree del mondo dove masse di gente esclusa da una vita degna si arrabattano per sopravvivere. Si tratta di un rapporto più che geografico, sociale. Ma non è tutto, perché non di solo pane vive l’uomo. Il mistero della trascendenza è un centro più profondo che attrae dalle lontananze spirituali verso di sé le persone che sono alla ricerca di significato e le incammina verso la concretezza dell’Incarnazione, all’incontro della persona che rende visibile la trascendenza, Gesù. In tale incontro è vinta la solitudine e l’inquietudine trova la risposta giusta.
Si può dire che con Francesco la Chiesa ha maturato un suo specifico punto di vista sul dramma delle “periferie”, in risposta alle sfide presenti?
Andare incontro all’altro è la missione della Chiesa. Il Padre è venuto incontro a noi attraverso Gesù. Il dinamismo generato da questo gesto anima la comunità di fede che abbraccia, come diceva un grande vescovo italiano, Giovanni Battista Scalabrini, “i figli della miseria e del lavoro”. Non c’è degrado e fatica che pongano limiti all’accoglienza. Oggi l’analfabetismo religioso si estende a macchia d’olio e porta le persone verso le sabbie mobili del relativismo sia di convinzioni che morale. C’è una perdita di speranza che si possa trovare una strada o identificare un ideale per il quale vale la pena spendersi, qualcosa di più grande della carriera e del guadagno. La sfida sta proprio nell’arrivare a questa enorme periferia e farvi germogliare una nuova speranza. E la proposta evangelica della Chiesa è sempre attuale, nuova e rinnovatrice.
Nel quadrante mediorientale è in atto un dramma senza precedenti. Papa Francesco ha dichiarato che “è lecito fermare l’aggressore ingiusto”. E ha chiamato in causa le Nazioni Unite come presupposto di una azione più giusta. C’è chi ha detto che Francesco avrebbe riscritto la nozione di guerra giusta su basi laiche, non più assolute ma relative. È così? Che ne pensa?
Il forte richiamo di papa Francesco alla comunità internazionale di fermare l’aggressore ingiusto ha radici sicure nella dottrina sociale della Chiesa. La tragedia inaudita di cristiani crocifissi, sgozzati, forzati a scappare dalle loro case e proprietà, dai villaggi in cui sono vissuti da 1700 anni; le immagini di teste di cristiani decapitati infilzate su uncini come decorazione, segni di inumana barbarie, evidenziano il dovere di proteggere. I Patriarchi delle Chiese orientali domandano alla comunità internazionale un’azione efficace che disarmi l’aggressore, assicuri il ritorno dei rifugiati e garantisca sicurezza fin tanto che il governo nazionale non sia in grado di farlo. La comunità internazionale si è data dei meccanismi per rispondere ad emergenze come quella che vediamo nel nord dell’Iraq e la carta delle Nazioni Unite li descrive. La Chiesa è la voce della coscienza…
Questo cosa implica?
Le modalità per attuare anche con l’uso della forza la protezione di queste persone che sono vittime di purificazione religiosa, a rischio di genocidio, dovrà essere determinata dagli Stati appunto non individualmente ma attraverso una decisione collettiva e che includa anche i Paesi della regione. La situazione è molto complessa. Ma la protezione dei diritti fondamentali di decine di migliaia di persone a rischio non può essere ignorata. Non si tratta di un problema di cristiani e jazidi o di altri gruppi religiosi, ma di persone che sono membra della stessa famiglia umana con pari dignità che tutti. Esauriti senza risultato gli sforzi di dialogo, negoziato, magari anche dell’imposizione di sanzioni, diventa un dovere intervenire con altri mezzi purché ne risulti un bene maggiore del male che si vuole eliminare. Certo, quanti forniscono armi, denaro, appoggio politico, mercenari, al cosiddetto califfato non possono sentirsi estranei ai crimini che esso commette mentre cerca potere attraverso un’ideologia espressa con vocabolario religioso. Occorre fermare il commercio delle armi e la loro produzione. Non mi pare che ci sia un cambiamento sostanziale nella dottrina della Chiesa. Il dovere di proteggere viene dal fatto che siamo un’unica famiglia umana e che ogni persona ha uguale dignità. Si tratta di una base teologica niente affatto relativa e da cui derivano chiari diritti e doveri.
Lei registra sul punto una differenza di ispirazione tra Giovanni Paolo II e Francesco?
Giovanni Paolo II ha articolato in varie occasioni il suo insegnamento sul dovere di proteggere e fermare l’aggressore ingiusto. È una forma di solidarietà che deriva, a me pare, e come dicevo prima, dall’unità della famiglia umana la cui realtà precede le frontiere nazionali. La prospettiva da cui partono sia papa Giovanni Paolo che papa Francesco è quella delle vittime innocenti la cui salvaguardia per varie ragioni non viene garantita dal loro governo e che si confrontano con un pericolo immediato e grave. L’appello accorato del papa a fermare la mano omicida è la voce dei senza voce che ricorda alla comunità internazionale la sua responsabilità. Toccherà quindi a questa comunità prendere quelle misure che sono adeguate per proteggere e ristabilire la pace.
Secondo lei è in atto un fenomeno di “scontro di civiltà” in Medio oriente e in particolare in Iraq? Perché?
La Chiesa cerca anzitutto il dialogo costruttivo e portatore di pace. L’uso della violenza ha prodotto sempre effetti nefasti. La stessa idea di scontro è aliena alla cultura cristiana. Ma non si può negare che la matrice culturale e religiosa che ispira gruppi fondamentalisti, non solo in Medio Oriente, implichi un elemento di scontro e non accetti la via maestra indicata dal cristianesimo per le relazioni tra persone e popoli che è quella dell’amore. Assistiamo ancora una volta alla strumentalizzazione della religione per mascherare altri interessi.
Altri hanno accusato Francesco di una reazione tiepida nei confronti dell’islam. Che ne pensa?
La grande sensibilità di papa Francesco per le sofferenze dei Cristiani e di altre vittime della violenza causata da gruppi fondamentalisti in vari Paesi mostra una ricerca nuova di affrontare la questione, evitando di aumentare i contrasti e di fare appello alla ragione e alla coscienza die persecutori attraverso il male che causano nella speranza che si possano ravvedere. Questo tanto più perché la religione è strumentalizzata per scopi ad essa estranei.
Organismi internazionali come le Nazioni Unite, che dovrebbero essere ispirati a principi di giustizia, spesso sono soggette a forti influenze ideologiche che appaiono pregiudicare o smentire quegli stessi principi ispiratori: può un Papa appellarsi a organismi cui è capitato, direttamente o indirettamente, di attaccare la Chiesa per le sue posizioni in materia morale e di pastorale familiare?
Il dibattito per una riforma delle Nazioni Unite è in corso da qualche anno. Ringiovanire questa istituzione nata alla fine della seconda guerra mondiale mi pare sia un desiderio abbastanza generale anche se mettere mano concretamente ad una riforma presenta rischi. Non è solo per le Nazioni Unite che il gap tra l’ideale e la realtà quotidiana esiste. D’altra parte, se le Nazioni Unite non ci fossero, occorrerebbe inventarle. È un punto critico di incontro dei vari paesi del mondo e offre quindi la possibilità di dialogare e prevenire malintesi e conflitti. Su alcuni valori importanti, come la famiglia, ci sono differenze sostanziali specialmente tra esperti onusiani e tradizione cattolica. Si è presenti comunque in questa arena internazionale per testimoniare appunto il nostro punto di vista e spiegare perché lo consideriamo un bene per tutta la famiglia umana. Nella ricerca della pace, per esempio, e nella difesa dei diritti dei popoli in via di sviluppo, esiste una notevole convergenza di vedute. Certo occorrerà vigilare che le ideologie di funzionari o di uno o un altro Stato non vengano imposte senza consenso.
Oggi il tema dell’immigrazione è molto spesso travisato e piegato in modo strumentale. Motivi religiosi, unitamente alla fuga dall’estrema povertà, dunque essenzialmente un desiderio e un bisogno umano, trovano sorde le società più ricche. Dovremmo invece accogliere tutti?
Nella nostra società globalizzata alla libera circolazione di merci e servizi non corrisponde quella delle persone. D’altra parte Paesi sviluppati, come quelli europei, per ragioni economiche e demografiche hanno bisogno in certi settori di manodopera straniera. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno estremamente complesso che richiederebbe una lunga discussione.
In maniera telegrafica potrei dire che l’immigrazione non deve essere manipolata per scopi elettorali, spaventando l’elettorato; che canali legali per l’accoglienza degli immigrati devono essere adeguati; che la solidarietà deve essere attuata in maniera ordinata per evitare le tragedie alle quali quotidianamente assistiamo nel Mediterraneo e per rispettare il bene comune dei Paesi di arrivo. Non dimentichiamo che il primo diritto è quello di rimanere nel proprio Paese con una vita degna. Perciò collaborare per creare posti di lavoro nei Paesi di origine dei flussi migratori e sostenere quegli sviluppi politici e sociali che garantiscano la qualità della vita diventa la via per rendere l’emigrazione una scelta e non una necessità.
La Ue ha detto al governo italiano che non sono possibili nuovi aiuti per fronteggiare gli sbarchi. Cosa pensa di questo fatto?
I confini dell’Italia nel Mediterraneo sono anche i confini dell’Unione Europea. Mi sembra un dato cosi specifico che richiede un’azione collettiva per gestire correttamente gli arrivi di emergenza dalla sponda sud. Il futuro dell’Ue per essere costruttivo, mi pare esiga una solidarietà reale nell’affrontare gli arrivi delle masse disperate di persone che cercano asilo politico e sopravvivenza. Una vera politica europea puo mettere assieme una governance ordinata dei flussi migratori e la solidarietà dovuta verso quelli che “bussano alla sua porta”. Mi sembra che la gravità di questa situazione non possa essere relegata ad un solo membro, ma all’Unione nel suo insieme, se vuole essere conseguente con le sue aspirazioni.
Il titolo del Meeting suggerisce che, da qualunque “periferia” provenga, l’uomo non sia lasciato solo dal destino. Spesso la storia invece smentisce il desiderio di bene dell’uomo. Qual è il suo punto di vista su questo? Come la interroga il titolo del Meeting?
Oggi si moltiplicano i focolai di violenza in giro per il mondo e diventa scoraggiante la realizzazione che dietro queste tragedie ci sono volti concreti di persone che agiscono ai danni del loro prossimo. Eppure la storia ci mostra che le vittime alla fine determinano il suo cammino. Le prime pagine del Vangelo ce ne danno una lezione. Vediamo persone insignificanti e senza potere nella loro società, Giuseppe, Maria, i pastori, il vecchio Simeone ed altri anonimi che costituiscono il contesto sociale in cui nasce e cresce Gesu. Non è Erode o il Sommo Sacerdote che determinano il futuro della Storia, ma queste persone umili e forti della loro fede: erano alla periferia, ma rimangono ancora il centro per tutti noi.