Sono due le domande che occorre porsi quando spunta fuori il nome di Aafia Siddiqui, colei che abbiamo imparato a conoscere come “Lady Al Qaeda”: chi è? Ma soprattutto, quanto è importante per finire sempre sul taccuino dei riscatti del jihadismo internazionale? Non a caso il suo nome è spuntato anche nel riscatto presunto richiesto per la liberazione del povero Foley, decapitato dallo stato islamico. Di lei si sa davvero poco. E anche quel poco è ammantato da un mistero che anche chi le è vicino, probabilmente, contribuisce volutamente a mantenere. Le sole certezze sono la sua provenienza geografica, il Pakistan, e che sconta una pena di 86 anni di reclusione negli Stati Uniti. 



E qui emerge il primo mistero: la Siddiqui è infatti detenuta non per essere un pezzo da novanta del terrorismo jihadista internazionale, come in molti ritengono che sia, bensì per aver tentato di sparare a degli agenti durante il suo interrogatorio. Afghanistan, Talebani, diamanti in Liberia, Algeria, vedova di una delle menti dell’11 settembre, unica detenuta donna a Bagram, laureata al Massachusetts Institute of Technology. Questi e tanti altri particolari, veri o presunti, rendono l’affaire Siddiqui ancora più intrigante per chi volesse capire davvero la rete di legami e di passaggi nascosti nel jihadismo qaedista degli ultimi quindici anni. Ma sicuramente, almeno per quel che se ne sa, l’aspetto più importante e inquietante della storia della Siddiqui è l’essere stata trovata in possesso, durante il suo arresto in Afghanistan, di materiali chimici. 



Qual è realmente il ruolo di questa donna, che in molti vedono come una sorta di anima grigia del terrorismo qaedista: esperta in armi “non convenzionali”? Oppure la mente oscura che ha studiato e messo a punto i processi di indottrinamento più avanzati in mano ad Al Qaeda? Non dimentichiamo infatti, ma qui siamo nel campo delle ipotesi e delle supposizioni, che la Siddiqui si è laureata al Mit in scienze neurologiche e si potrebbe legittimamente pensare che possa aver avuto un ruolo chiave, se non primario, nella realizzazione di modelli di indottrinamento e di costruzione del “jihadista perfetto”. Modelli che oggi vediamo sfruttare da ogni nucleo estremista per reclutare adepti e kamikaze in tutto il mondo, cosa che si va ad incrociare alla perfezione con la crescita esponenziale dell’adesione al jihad in Afghanistan, Siria e Iraq da tutto il mondo. Chi sia realmente Aafia Siddiqui, 42enne neurologa pakistana detenuta negli Usa e da tempo unico obiettivo dei riscatti jihadisti, è quindi difficile dire. 



Ma l’unica cosa che mi pare piuttosto chiara è la sua importanza decisiva per tutta una galassia fondamentalista: il fatto che da anni ogni sequestro e atto terroristico richieda, come riscatto, la sua liberazione non è certo un caso. E non è un caso che le sue competenze, guarda caso maturate negli Usa, la facciano ritenere così importante pur essendo una donna, merce che per il jihadismo è senza valore alcuno; a meno che essa non nasconda in sé un qualcosa di così segreto e potenzialmente distruttivo da renderla quasi insostituibile. È lei il grande manovratore psicologico del potente esercito jihadista che marcia spedito verso la conquista dell’Occidente?