Che gli Stati Uniti del presidente Obama non abbiano alcuna chiara strategia riguardo non soltanto alla Siria ma a tutto il Vicino e Medio oriente è un dato di fatto. Non c’era bisogno per questo che Obama lo ammettesse. Lo si vedeva già ad occhio nudo. Riguardo alla crisi ucraina invece una strategia ce l’ha, ma non c’è ragione di compiacersene: nella misura infatti in cui influisce sulla situazione essa gioca contro l’interesse europeo (che non è quello di costruirsi un altro Medio oriente alle porte di casa).



È una… distrazione, quella di Obama, non priva di ragioni soggettive, che però sono comunque meno importanti di quelle obiettive. Giunti alla fase argentea della loro età imperiale, gli Stati Uniti non sono più in grado di garantire quella medesima forte presenza in ogni angolo dello scacchiere mondiale che era loro possibile nella fase aurea. Dovendo perciò scegliere se dare priorità all’area del Pacifico o a quella dell’Atlantico/Mediterraneo molto probabilmente qualunque presidente americano sceglierebbe per la prima, che agli occhi di Washington è quella di maggiore importanza relativa. Occorre perciò che a tale disimpegno corrisponda un proporzionale maggior impegno europeo. È un onere che l’Unione europea sarebbe in grado di assumersi, se essa non fosse l’esito fallimentare di un progetto sbagliato. Se non si basasse su un trattato, quello di Maastricht, predisposto a misura dell’Europa occidentale prima che cadesse il Muro di Berlino, e poi giunto alla ratifica quando il Muro era caduto, gli equilibri alla scala mondiale erano mutati completamente e l’Europa orientale era ricomparsa sulla scena. Ciononostante non si ebbe il coraggio di buttare nel cestino tutto il lavoro fatto e ricominciare da capo. Purtroppo non lo si fece allora, ma se non si vuole andare incontro alla catastrofe lo si dovrà fare adesso. 



In questa situazione ciò che deve far paura, e cui dunque occorre porre al più presto rimedio, non è tanto la posta in gioco, impegnativa ma non impari, quanto piuttosto l’attuale incapacità dell’Europa politica a far fronte ai nuovi compiti che gravano su di essa a seguito del crescente disimpegno degli Usa dallo scacchiere euro-mediterraneo. Proviamo ciononostante a immaginare che cosa l’Europa potrebbe fare di positivo nel Levante o rispettivamente nel caso della crisi ucraina. 

In entrambi i casi si tratta di aree cruciali per il nostro rifornimento energetico. Sia ben chiaro: non per questo siamo con le spalle al muro. Se infatti l’Europa ha assolutamente bisogno di comprare idrocarburi, la Russia e il Medio oriente hanno assolutamente bisogno di venderli. E i Paesi, attraverso cui i gasdotti e gli oleodotti transitano, hanno assolutamente bisogno delle entrate che da tale transito ricavano. Stando così le cose, occorrerebbe una politica comune in campo energetico orientata a una gestione di tale interscambio conveniente per tutte le parti in causa.



Viceversa, proprio in questo determinante settore, l’Unione europea è come se non ci fosse. Ogni Paese membro si fa la sua politica dell’energia, possibilmente in concorrenza con tutti gli altri. E dentro l’Ue non esiste nemmeno una vera e propria  rete integrata di gasdotti e oleodotti. Manca infatti quella loro totale interconnessione che darebbe realmente a tutti i Paesi membri la piena possibilità di attingere a rifornimenti di qualsiasi provenienza. 

Prima ancora però occorre lasciarsi alle spalle un’eredità ormai del tutto superata e risalente all’esito della seconda guerra mondiale. Quell’immane conflitto si era concluso con la vittoria  delle grandi potenze democratiche su quelle autoritarie, ma di fatto anche con il trionfo dell’interesse nordatlantico su quelli continentale e mediterraneo. Conseguentemente, fin quasi ad oggi l’interesse europeo è stato identificato con quello dei Paesi nordatlantici, e perciò dell’Europa del Nord. Tale distorsione è un motivo primario dell’attuale incapacità dell’Unione europea di porsi efficacemente sulla scena internazionale. Nell’Unione si intrecciano diverse linee di gravitazione geo-politica e geo-economica, rispettivamente nordatlantica, baltica, mediterranea, danubiana. Una politica estera europea ha invece senso solo nella misura in cui fa sintesi tra tutte queste varie linee di gravitazione senza dimenticarne nessuna.

Infine occorre aver chiaro che le grandi potenze industriali sono in grado, se lo vogliono, di spegnere qualsiasi guerra. I sistemi di armamento sono un prodotto industriale e logistico complesso e costoso, del tutto al di sopra delle possibilità tecniche ed economiche dei paesi meno sviluppati. Chi oggi combatte nel Levante, da Gaza fino al Nord Iraq, lo fa grazie a finanziamenti e a forniture di armi e munizioni che arrivano dall’esterno. All’ombra di sigle come l’Is e simili, e di proclami deliranti come quello del “califfato”, stanno delle compagnie di ventura a mezza strada tra il fanatismo e il puro e semplice banditismo, feroci con gli inermi ma incapaci di stare in campo contro forze armate regolari. Se lo si volesse potrebbero venire isolate e debellate in poche settimane. 

Il caso della crisi ucraina è un po’ diverso poiché la Russia è un grosso produttore di armamenti terrestri piuttosto rustici, ma proprio perciò adatti a conflitti a bassa intensità in contesti o di sottosviluppo o di sviluppo limitato. Qui però, purché l’Unione europea e la Nato non indulgano a provocazioni dissennate, si può far leva sugli interessi comuni o complementari che tutte le parti in causa hanno in campo energetico. In tale prospettiva, senza pretendere di farla entrare nella Nato (eventualità inaccettabile per Mosca), si può tuttavia esigere il rispetto dell’integrità e della sovranità dell’Ucraina.

In sé e per sé la situazione insomma è seria ma nient’affatto disperata. È quando apri la tv che ti cascano le braccia: quando tocchi con mano la distanza tra la realtà e i minuetti dei ragazzi e delle ragazze che tra baci, abbracci e pacche sulle spalle si riuniscono a Bruxelles.